Giuseppe De Rita, Corriere della Sera 05/12/2010, 5 dicembre 2010
CULTURA CATTOLICA: IL RISCHIO DEL DECLINO
Nulla disturba la psiche di noi mortali quanto la sensazione di essere irrilevanti. E si può presumere che il disturbo sia ancora più spiacevole per le istituzioni collettive e per chi le abita e governa. Mi incuriosisce in questa luce, e in parte mi coinvolge, la realtà attuale della Chiesa cattolica che, malgrado la sua persistenza millenaria, è da più parti indicata come grande icona dell’irrilevanza rispetto alla convulsa attualità delle dinamiche culturali e dei dibattiti politici. E confesso che anch’io provo frustrazione per come la Chiesa spesso cada «sua sponte» nel rischio dell’irrilevanza: troppi documenti ad alta genericità, troppi appelli di puro volontarismo, troppi sconfinamenti su argomenti su cui non si ha molto da dire, troppe rivendicazioni valoriali e di principio, troppi eventi che non riescono a farsi notare fuori dei propri recinti.
Si è creata così un’aura di pericolosa non significanza nel campo della comunicazione e dell’opinione pubblica, quali che siano le colpe che in assoluta reciprocità si rinfacciano gli esponenti del mondo ecclesiale («le cose che diciamo non sono adeguatamente valorizzate») e gli esponenti della comunicazione di massa («non ci dicono niente di significativo»). In una progressiva lontananza che non fa bene a nessuno e che forse è possibile superare partendo dalla focalizzazione della sua ragione profonda, cioè l’evasione congiunta e parallela da un confronto culturale doverosamente radicale: da un lato la Chiesa conta prevalentemente sull’omogeneità del proprio mondo, fatto di milioni di fedeli raccolti nelle parrocchie e nelle associazioni; e dall’altro lato i protagonisti della comunicazione e della politica sanno di poter contare sul fatto che sono comunque loro a dettare l’agenda.
Si fronteggiano così due mondi autoreferenziali, dove la distanza fenomenologica delle affermazioni di principio è quasi funzionale a mantenere la autoreferenzialità, spesso addirittura accentuandola: proclamando da una parte valori «non negoziabili», e sottolineando dall’altra la inarrestabilità storica della modernità e dei suoi strumenti. Ma l’autoreferenzialità troppo replicata alla fine stanca e si esaurisce ed è probabile che ci sia spazio per un dialogo pur radicale.
Nel mettere a fuoco tale dialogo ed i campi più delicati e ambigui che esso si trova di fronte, si può constatare che il primo riguarda il rapporto fra dimensione ecclesiale e potere sociopolitico. È chiaro che quest’ultimo è propenso, in nome della modernità, a favorire una crescente espulsione della dimensione religiosa dallo spazio pubblico, ma ciò alla fine crea certo una diminutio parallela: la Chiesa è costretta o si adatta a far politica ecclesiastica, di realistico adattamento al potere e quindi senz’anima ecclesiale; mentre lo spazio pubblico diventa sempre più troppo prigioniero delle dinamiche istituzionali (la laicità dello Stato, la esaltazione della legalità, il primato delle procedure decisionali, ecc.) con l’effetto che proprio lo spazio pubblico, quello di tutti, finisce per diventare privo di senso collettivo e di adesione partecipativa.
Il secondo ambiguo campo di dialogo è quello del rapporto con la modernità e la post-modernità. La Chiesa certamente soffre la crescita della secolarizzazione e della riduzione della religione a fatto privato, residuale e premoderno, ma ancora più soffre la crescita del politeismo dei valori e del conseguente relativismo culturale ed etico. Va però notato che tale politeismo ha effetti devastanti anche sulle ambizioni di una modernità che, essendo sempre meno governata, lascia il campo valoriale alla mercé del primato della soggettività (culturale ed etica) con effetti di egoismo, particolarismo, cinismo, che all’occhio critico appaiono più guicciardiniani che moderni.
Il terzo campo di dialogo, proprio a proposito di soggettività, è quello della variazione dello statuto antropologico dell’uomo. La Chiesa avverte che nella società attuale i suoi basamenti di lungo periodo (la creaturalità dell’uomo, il primato dell’anima nel corpo, la scansione fra speranze terrene e destino ultraterreno) hanno meno udienza che nel passato; ma anche la cultura del secolo avverte lo squilibrio fra le sue ambizioni di autopoiesi e di autodeterminazione dell’uomo (il suo farsi da sé, il primato della libertà di coscienza, la moltiplicazione dei diritti, ecc.) e la quotidiana vita dei singoli, presuntivamente potentissima, ma che nei fatti si consuma in difficoltà e disagi di «senso», divenendo fragile e troppo prigioniera del variare delle contingenze.
Ed infine esiste un quarto ambiguo campo di confronto, quello relativo al ruolo della Chiesa nella storia del mondo. La sua funzione antica di motore della storia è andata declinando e non solo per effetto della secolarizzazione di stampo occidentale (che nega anche le radici cristiane dell’Europa) ma anche e specialmente per effetto della crescita combinata del fondamentalismo islamico e dell’empirismo continuato dei Paesi emergenti. Tale combinata crescita mette però in crisi quell’«orgoglio degli umani» che è diventata ideologia tipica dell’Occidente, ma che non può vivere senza il recupero dell’apporto di uno spirito religioso inverato nella storia, come è per secoli stato lo spirito giudaico-cristiano; e senza il quale anche il citato orgoglio rischia l’irrilevanza storica.
Ce n’è abbastanza per dare senso ad un confronto serio fra la cultura cattolica e la cultura sociopolitica dominante, due culture che ove si accentuassero i pericoli sopra richiamati rischierebbero un parallelo declino di incidenza collettiva. E siccome i pericoli maggiori li corre oggi la cultura cattolica, è forse opportuno che i primi passi del confronto vengano proprio da quella parte.
Giuseppe De Rita