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 2010  dicembre 04 Sabato calendario

TEOCOLI, DALÍ E ALTRE STORIE

Ai tempi in cui la nebbia era un muro sull’ignoto, le terze classi abbaini con panorama sull’ inferno e il Sud una mistica entità di cui parlare con disprezzo e commiserazione, Teo Teocoli, nipote di giostrai, natali incerti del ‘45 sulla dorsale tarantina, infanzia calabrese, entrava per la prima volta in una scuola milanese. “Ero l’africano del gruppo. Gli altri compagni con i cornetti e le brioches, io con un finocchio per saziarmi. Lo addentai e il rumore fece girare tutti. Rimasero a guardarmi sconvolti, spaventati”. In “Io ballo da solo” (Mondadori), Teocoli schiaccia la relativa originalità del titolo, per raccontarsi senza filtri. E sono pagine sorprendenti, da romanzo popolare che a un tratto, incontra un mondo estraneo. Lui è un playboy di talento, bello, rapido, gaudente. Parte e ritorna, apolide per necessità, senza centri di gravità permanenti. Piovono viaggi fumosi, cartine arrotolate, balli in Costa Azzurra e notti in bianco. “Svegliarmi presto, non mi è mai piaciuto”. Gli anni scorrono e davanti agli occhi passano Brigitte Bardot e Dalí, Monicelli e Fellini, gli amici del Derby e i banditi come Turatello. Trascorse 66 stagioni, Teocoli ha mantenuto inalterato il medesimo vizio dell’adolescenza. Rifugge le gabbie, detesta i convenevoli, più in generale, se ne frega. Lo ha sempre fatto. Quando si stanca, fugge. Ha visto tutto, la periferia e l’Impero.
Teo, qualche immagine?
Nei ‘60, Saint-Tropez era come un luna-park. Frequentavo Gigi Rizzi che a sua volta, passava le ore con Brigitte Bardot.
Bella compagnia.
Conveniente. Ero amico di tutti i proprietari di stabilimenti balneari e discoteche. Per uno del rione Marconi di Reggio Calabria, costantemente senza una lira in tasca, il salto era già impressionante.
Rischi?
Pagare non faceva parte delle mie regole. Unico istante di pericolo reale individuato senza difficoltà, la cena. Se non c’era copertura, potevi lavare piatti fino al giorno dopo. Una sera finisco a tavola con Agnelli.
Quell’Avvocato?
Proprio lui. A Les Mouscardins, il locale in cui eravamo a cena, un piatto costava come un affitto mensile. Appeno arrivo, Gianni si rivolge a me.
Dialogo?
“Buonaseva, da dove viene?” E poi, senza lasciarmi rispondere: “Uno come lei non può che esseve greco”. Io secco, “No guardi sono di Niguarda, Via Adriatico tre”. Arrotava la erre, mi invitava a prendere ostriche grandi come cattedrali. Rimasi a digiuno. “Sono sazio, grazie”.
Origini umili, le sue.
Eravamo poveri, ma poveri veri. Mio padre era un uomo di rara durezza, mamma, una donna limitata ma adorabile. Quando spiantato tornavo dalle scorribande francesi per sdraiarmi sul mio lettino alle 4 di mattina, mi veniva vicino: “Nino, vuoi due spaghetti?”.
Lei rifiutava?
Scherza? Annuivo, accendevo la musica e poi, in offesa a qualunque principio di sanità, ne divoravo mezzo chilo aspettando l’alba.
Ha sofferto?
Mai stato così felice come allora. I soldi sono stati solo un tramite per vivere meglio, mai l’obiettivo. Mamma poi, da bambino, lasciava la gamella con il minestrone sul calorifero. Io arrivavo e pulivo la pentola.
Aveva fame.
Sempre avuta. A 16 anni scappo di caso e vado a Napoli, da allora, un tetto fisso non l’ho mai voluto avere per una parentesi di tempo lunghissima.
Carriera ondivaga.
Ballerino, cantante, imitatore. Ho fatto di tutto. Se fossi stato meno pigro, forse avrei recitato con maggiore cognizione. Cambiare maschera ogni giorno non è stato semplice.
Depressioni?
Qualcosa di simile, una volta, vestito da coniglio e incipriato fino ai piedi in uno studio televisivo ho anche pianto. E’ un mestieraccio il mio.
Però a un Teocoli malinconico non crediamo.
Meditabondo sì. In fondo le mie radici sono popolari e le mie frequentazioni giovanili, un circo di persone che sulla faccia avevano scritto: “dalla mia condizione non evaderò mai”.
Descriva.
Garzoni, portieri, aiutanti in osteria. Le sembrerà strano, ma sono gli affetti che non ho più dimenticato. Ho avuto culo, io.
Esempi?
Per anni ho girato senza patente, prendevo la corsia centrale, evitavo i blocchi della polizia. Mi è sempre andata bene.
Sempre?
Solo il 16 marzo ‘78, quando rapirono Moro, me la vidi brutta. C’era il coprifuoco e io, che sono sempre stato apolitico, avevo una fottuta paura di essere arrestato.
Quando conobbe Berlusconi?
Molti anni fa. Chiamano me e Boldi per una serata a Milano 2, la sola idea di mettere un numero e moltiplicare il nome della mia città mi pareva uno scherzo di dubbio gusto.
Comunque andò.
Certo, pagavano. Mi presento con Massimo, montiamo i microfoni e a un certo punto, entrano due guardie del corpo.
Addirittura?
Sono affaticati, trascinano un orrendo divano color vinaccia. Io mi irrito e gli dico: “Di quella schifezza, per il nostro spettacolo, non abbiamo alcun bisogno”.
Reazione?
Mi guardano male: “Questo divano deve stare qui”. “Perché?” “Perché il signor Berlusconi desidera così”. Allora mi arrabbio: “Ma chi cazzo è ‘sto Berlusconi?”. Non avevo capito niente.
E le insidie di Gala, la moglie di Dalí?
Anche senza perspicacia, non era difficile annusarle. Ci conoscemmo a Cadaqués , in pieno franchismo, durante uno di quei viaggi picari senza costrutto in cui io e Guido Nicheli potevamo ritrovarci a Barcellona come per una deviazione involontaria o una distrazione, a Lione.
Torniamo al corteggiamento.
Gala era stata la moglie di Paul Elauard, fonte di ispirazione per una somma di artisti incredibili. Una sera mi propose di passare una notte con lei.
Ardita.
Aveva quasi novanta anni. Il rapporto tra lei e Dalí, uno che sosteneva che lavarsi fosse inutile, viveva di tutte le sollecitazioni eteree del caso. Pensi che ai due venni presentato da un manager che girava con un piccolo leopardo sulle spalle. Comunque ci troviamo a Pubòl, nel suo castello e Gala si lancia. “In questa stanza, se facciamo l’amore, ci può sentire tutto il paese”.
In che modo?
Dalí aveva costruito una cupola con una camera acustica. Se gemevi, il tono era amplificato. Dalí, da dietro la porta, con gli amici si divertiva ad ascoltare le scopate della consorte.
Accadde anche con lei?
Mi allontanai in anticipo, diciamo. Ero fidanzato con Veruska, una figa pazzesca, con rispetto parlando. Quando la portai a Roma (abitavo con Califano), il Califfo rimase senza parole. Si intimidì: “Che ve cucino, un aijo e oio?”
A Milano, all’epoca del derby, lei cenava con Turatello.
Conoscemmo la malavita da vicino, senza dubbi. Tutta la mia esistenza è stata una contaminazione continua. Una sera, la donna di uno dei boss delle bande milanesi mi mise in difficoltà.
Racconti.
Era gente particolare, quella. Se chiedevano da mangiare a tarda ora e si vedevano opporre un rifiuto, mettevano i mitra sul tavolo. Ma quella ragazza era
bella davvero.
Cosa accadde?
Le feci piedino sotto il tavolo. Se se ne fosse accorto il compagno non sarei qui a parlarne. Anche se persone come Restelli, per dire, erano i miei dirimpettai di pianerottolo.
Per cosa ha vissuto Teocoli?
Per l’avventura. Per il rumore delle lenzuola in pensioncine di retroguardia, per alcuni filoni di baguette con il Patè , per testa o croce fatti alla frontiera, decidendo all’istante dove indirizzare la giovinezza.
E adesso che gli anni sono 66?
Per un po’ di meritata solitudine. Vado a Ibiza, l’Isola nascosta all’interno, scissa tra gli ulivi e il mare meno battuto. Senza caos, discoteche o volgarità.
E cosa fa?
Crollo in spiaggia da solo. Con un libro in borsa che non leggo mai e la Gazzetta dello sport.
Non imiti Abatantuono.
Non si azzardi. Lui segue la mia ombra da sempre, ma io arrivo dieci anni prima di Diego. In-tutto (ride).
Come si inventa un personaggio al giorno?
A Milano, anche se l’ho amata perdutamente, è più facile. Ci sono atmosfere che obbligano al lampo. Ti affacci e vedi un palazzone di quindici piani. Allora la mente fa uno sforzo e nascono le storie.
Rimpianti?
Mi sono sempre sbattuto e riposarsi era un’eresia. Il Derby era una prigione. Una cantina, aperta dalle 10 di sera alle 4 del mattino in cui la competizione violenta era pane quotidiano.
Il nomadismo è la sua cifra.
Dopo un certo tempo, devo cambiare aria. Cerco la libertà. Da bambino, nel pomeriggio uscivo per i campi. Il Neorealismo eravamo noi, le nostre vite.
Voci dal ballatoio.
E odore di merda nei cortili, le madri che dicono ai figli: “Non giocare con il terùn, mi raccomando”: non mi sono dimenticato niente.
Però ce l’ha fatta.
Non ho mai chiesto aiuto a nessuno. Jannacci me lo diceva: con te è impossibile intervenire, sai cosa fare da solo.
A volte esagerava, con Nestor Combin degenerò .
Mi picchiò perché riferii a Cesare Maldini di averlo incontrato alle due di mattina in un locale. Ci pestiamo, io lo denuncio e la mattina dopo mi chiama mia madre: “Nino, c’è una persona che ti cerca”.
Chi era?
Carraro, il presidente del Milan. “Deve ritirare la sua denuncia, noi partiamo per la Coppa Intercontinentale e allo stato, Combin non può imbarcarsi”. Sento urlare e poi Carraro dice: “Le passo una persona”.
Chi era?
Nereo Rocco. Una tempesta:
“Cabelon schifoso e dormiglion, che casso ci combini, Cossa ti vo?”
In “Io ballo da solo” si è confessato fino in fondo?
Il venti per cento della mia parabola non l’ho messo in pagina. Certi segreti non sono ancora in prescrizione.