Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano 4/12/2010, 4 dicembre 2010
C’ERAVAMO TANTO SPARTITI
Il fatto sintomatico è accaduto una settimana fa. Antonio Catricalà, designato dal governo alla presidenza dell’Authority per l’Energia, ha rinunciato temendo di essere impallinato nel voto di conferma in Parlamento. In pratica l’operazione è saltata per le divisioni dentro il Pd, che non è stato in grado di garantire il voto dei suoi deputati e senatori su un accordone di spartizione appena fatto tra i vertici del partito e palazzo Chigi. Curioso, no?
Eppure sembra una regola. A ogni stazione della via crucis, il disfacimento del berlusconismo rivela una continuità di dialogo e di intese, esplicite o silenziose, con il Partito democratico. Soprattutto quando di mezzo ci sono grossi affari. Questo non significa necessariamente che ci sia qualcosa di poco pulito. Semplicemente illumina una tradizione: sui grossi interessi economici la politica non fatica a ritrovare lo spirito bipartisan, benedetto dagli stessi discreti interventi del Quirinale, quando vitali interessi del Paese sono giudicati in pericolo.
Il caso del gas russo è lampante. I diplomatici americani si scambiano note infuocate dove gli accordi economici con la Russia di Vladimir Putin sono considerati una porcheria, con sospetto di inquinamento derivante dagli interessi privati di Silvio Berlusconi. Il Pd non fa una piega. Si limita, per esempio per bocca del vicesegretario Enrico Letta, a stigmatizzare che Berlusconi parli direttamente con Putin, al di fuori dei canali diplomatici. Ma sul merito non ha niente da dire, forse anche legittimamente, visto che i malumori americani sono evidentemente interessati.
Però sarebbe tutto più limpido se l’opposizione rivendicasse che l’accordo con Putin per il gasdotto della discordia, l’ormai celebre South Stream destinato ad arrivare in Europa aggirando l’Ucraina grazie al passaggio sui fondali del Mar Nero, l’ha fatto nel 2007 il presidente del Consiglio Romano Prodi, spalleggiato dal ministro dello Sviluppo economico Pier Luigi Bersani e soprattutto dal capo della segreteria politica di palazzo Chigi, Daniele De Giovanni. Il quale De Giovanni, allievo e fedele braccio destro di Prodi, finita l’esperienza di palazzo Chigi nel 2008, è andato a lavorare all’Eni, dove oggi è il responsabile del progetto South Stream.
Istruttivo anche il caso Enav-Finmeccanica. Da mesi divampa un flusso ininterrotto di notizie su inchieste giudiziarie e variegate ipotesi di malaffare. Stiamo parlando della produzione di armi, da una parte, e della sicurezza dei voli dall’altra . Eppure anche in questo caso la vicenda non entra più di tanto nel dibattito politico. La ragione va ancora una volta ricercata nelle biografie dei protagonisti.
L’amministratore delegato di Fin-meccanica, Pierfrancesco Guarguaglini, ha fatto carriera nella Oto Melara, fabbrica di armi che apparteneva storicamente all’Efim, ente pubblico di osservanza socialista. Nel 1996 fu arrestato insieme a Pierfrancesco Pacini Battaglia, noto tangentiere di area socialista, definito da Antonio Di Pietro, durante l’inchiesta Mani Pulite, “un gradino sotto Dio”. L’arresto di Guarguaglini durò pochi giorni e l’inchiesta per lui si è chiusa senza danni. Non è infatti reato chiamare spesso Pacini Battaglia e chiedergli consigli su come meglio vendere armi al Kuwait o ad altri esotici paesi.
Al contrario, la vicenda è stata considerata una benemerenza, e l’amicizia di Pacini Battaglia un patrimonio prezioso nel mestiere di venditore di armi, se è vero che nel maggio 1999, proprio mentre al ministero del Tesoro si insediava il suo amico di una vita Giuliano Amato, Guarguaglini veniva scelto dal governo D’Alema come numero uno della Fincantieri (che allora faceva navi più da guerra che da crociera). Tre anni dopo è stato Giulio Tremonti a chiamarlo alla guida di Finmeccanica. Inutile sorprendersi se oggi nessuno ha niente da dire sul manager toscano. Come suol dirsi, si attende l’esito delle inchieste. Come se fosse normale delegare alla magistratura la scelta e la valutazione degli uomini a cui affidare le fabbriche pubbliche di armi.
E vediamo adesso l’altro versante dello scandalo oggi più d’attualità, l’Enav. È la società pubblica che gestisce i radar di controllo del traffico aereo, cioè il sistema deputato a evitare che i jet si scontrino in volo. Un servizio costosissimo, che genere appalti per centinaia di milioni di euro, quasi del tutto segretati perchè la faccenda è ovviamente delicata. Da sempre l’Enav è terreno di caccia dei partiti, nessuno escluso. Negli anni ‘90 erano i ministri diessini a piazzare i loro uomini al vertice, naturalmente spartendo le poltrone con l’opposizione. Nel 2002 Giulio Tremonti mandò un suo uomo, Massimo Varazzani, a commissariare l’azienda. Varazzani parlò di moralizzazione e fu attaccato da tutti: disse che il tentativo dei partiti di allontanarlo dall’Enav era riconducibile agli appetiti sul “malloppo” da 650 milioni di euro racchiuso nelle casseforti dell’Enav. Il deputato della Margherita Renzo Lusetti era il più acceso nel centro-sinistra.
Dopo Varazzani è arrivato Guido Pugliesi, ed è ricominciata la lottizzazione delle poltrone. Negli anni ‘90 Pugliesi guidava le relazioni esterne di Telecom Italia. Tanto per capire di chi stiamo parlando, la Stet, così si chiamava allora, faceva la concessionaria di pubblicità per tutti i giornali di partito o politici, dall’Unità diretta da Walter Veltroni a L’Italia settimanale diretta da Marcello Veneziani. L’attività, guarda un po’, chiuse in pochi anni lasciando in eredità una perdita di centinaia di milioni di euro. Oggi Pugliesi è indagato per corruzione e altro. Ma con un passato così, quale politico si azzarderà a criticarlo?