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 2010  dicembre 04 Sabato calendario

L’EREDITA’ LIBERALE DI MARIO PANNUNZIO

Mi chiedo se Mario Pannunzio — del quale è ricorso quest’anno, il 5 marzo, il centenario della nascita — non direbbe di certi suoi esegeti di complemento, parafrasando Karl Marx (je ne suis pas marxiste), «io non sono pannunziano». Appartengo a quella generazione di liberali cresciuti (anche) alla lettura del Mondo, il raffinato settimanale di cui era direttore. Ero convinto, allora — e lo sono a maggior ragione ora che il gramsciazionismo se ne è impadronito, spacciando il suo pensiero come un tentativo di conciliazione fra comunismo e liberalismo — che Pannunzio fosse, innanzi tutto, un liberale che coniugava, con ponderata prudenza, il liberalismo con la democrazia come già aveva fatto Alexis de Tocqueville. Più che un teorico della democrazia — come avrebbe annotato Cavour dopo un loro fugace incontro — un «legittimista» preoccupato delle sue conseguenze.
Non penso, perciò, di far torto a Pannunzio — studioso dell’aristocratico francese — dicendo che egli era un conservatore, nell’accezione americana (di liberale), piuttosto che il progressista che, da noi, si è voluto raffigurare. «I repubblicani negli Stati Uniti — aveva scritto Tocqueville — apprezzano i costumi, rispettano le credenze religiose, riconoscono i diritti. Essi professano l’opinione che un popolo deve essere morale, religioso, moderato in proporzione alla sua libertà». Era, questo, anche l’ideale liberale del juste milieu di Cavour. Tocqueville era preoccupato (un «terrore religioso», il suo) degli sviluppi dell’eguaglianza, che egli concepiva non come status, ma come processo — il «livellamento crescente delle condizioni» — scrivendo che gli americani erano «nati eguali al posto di diventarlo» come, invece, i francesi con la Rivoluzione dell’89. Il fatto stesso che avessero conquistato l’eguaglianza con la violenza li rendeva incapaci di concepire istituzioni liberali.
L’intransigente anticomunismo, antigramsciano e antitogliattiano, di Pannunzio riecheggia, fin dalle pagine di Risorgimento liberale, le tesi di Tocqueville sul rapporto fra rivoluzione, democrazia e eguaglianza: «I comunisti di oggi — scrive — non parlano di rivoluzione, ma in realtà la fanno (...) Oggi il Partito comunista è un partito moderato. Oggi; ma domani? (...) Metodico, paziente, mortificante è il piano tattico del Partito comunista; disgregare e annientare gli avversari, usando a volta a volta le armi della legalità e quelle dell’illegalità (...) Un giorno al potere, impareranno gli avversari cosa si intenda per legalità». Solo se alla sincerità delle parole fosse corrisposta quella delle intenzioni il Partito liberale avrebbe potuto accettare «con eguale lealtà» la collaborazione col Pci. È questo, per me, il senso del Premio Pannunzio del quale il Centro che ne porta il nome ha voluto onorarmi — nel corso di una bella serata al Cambio, il ristorante caro a Cavour, davanti all’ex Parlamento subalpino e primo dell’Italia unita — martedì scorso.
Piero Ostellino