Dario Di VIco, Corriere della Sera 04/12/2010, 4 dicembre 2010
UN PO’ DELUSI E APATICI SENZA VOGLIA DI SOGNARE
Ci sono dei momenti nei quali anche una sociologia di ricognizione alla De Rita è costretta ad abbassare il suo punto di pescaggio. Ci sono delle fasi in cui persino una tradizione come quella del Censis, capace nel recente passato di leggere ciò che gli altri non vedevano, deve scendere più in profondità. È questa la chiave metodologica per apprezzare il 44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese e il suo viaggio dentro la psicologia collettiva degli italiani. Anche il lessico, decisivo nei successi del format del Rapporto, segue questo sforzo e le espressioni più significative diventano «sostanza umana», «pulsioni», «inconscio individuale» fino a «caduta del desiderio». Va da sé che desiderio in un contesto sociologico vale per ambizione, volontà, capacità di reagire, motivazione. Sostiene infatti De Rita: «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita».
Non siamo dunque malati di solo e alto debito pubblico, ci sono nella realtà italiana sensazioni di fragilità sia personali sia di massa che fanno pensare a «una perdita di consistenza del sistema». E se lo dice il Censis, che ha sempre puntato a valorizzare il vitalismo della società, la cosa preoccupa doppiamente. Anche perché questa nostra società appiattita vive di comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi o arrangiantori. Siamo scivolati verso il basso e alla motivazione abbiamo finito per sostituire la cattiveria, il ghigno. In altri Paesi sta avvenendo il contrario e così un giorno sì e l’altro pure ci scopriamo a invidiare più o meno platealmente i coreani, i cinesi e i tedeschi, popoli e società che mostrano un altissimo tasso di ambizione e di desiderio. Non hanno paura di misurarsi con le montagne e provare a scalarle, mentre noi perdiamo in casa pure contro l’immondizia.
Ci dice il Censis che siamo di fronte a un fenomeno di disinvestimento individuale dal lavoro. Sono arrivati alla quota di 2,2 milioni i connazionali tra i 15 e i 34 anni che non sono impegnati in un’attività di studio, non lavorano, non cercano occupazione e soprattutto non sembrano nemmeno interessati a trovarla. «È un mix perverso di inerzia e sfiducia» annota De Rita. Che subito dopo ci avverte che rischiamo di perdere la specializzazione produttiva, quel made in Italy che ci ha resi il quinto Paese più industrializzato del mondo. La quota dell’export italiano sul mercato mondiale negli ultimi nove anni è scesa dal 3,8 al 3,5%. Vendiamo più vestiti e macchinari per uso industriale ma nel contempo abbiamo perso peso in settori in cui eravamo tradizionalmente competitivi come le calzature, la gioielleria, i mobili e gli elettrodomestici. Ci dice, infine, il Censis che gli italiani sono i più scontenti in Europa per il funzionamento della propria pubblica amministrazione. Il 74% ne dà un giudizio negativo contro una media di scontenti che nella Ue si ferma al 52%.
Fin qui il Rapporto ma è evidente che non possiamo accontentarci. Non possiamo sederci sulla nostra decadenza. Abbiamo bisogno di interrogarci — se non altro — sui percorsi attraverso i quali riacquistare la virtù civile del desiderio, dell’ambizione. La politica, come ben sappiamo, al momento non ci viene in soccorso e del resto quasi il 71% degli italiani ritiene che dare più poteri al governo o al suo capo non sia una scelta efficace per risolvere i problemi del Paese. Il leaderismo in Italia ha ballato per una sola stagione e sicuramente oggi non pare godere di spinta propulsiva. Molto meglio, invece, scommettere sul fattore D. L’occupazione femminile sembra resistere alla crisi meglio di quella maschile, avremmo detto il contrario e quindi si tratta, per una volta, di registrare una sorpresa positiva. Ma c’è (molto) di più: le donne italiane hanno un potenziale di aspirazioni quasi del tutto integro. Dopo lunghi anni di affermazioni frustrate si presentano sulla scena del mondo del lavoro con la giusta ambizione di far valere la propria presenza e il proprio punto di vista. Perché allora, per risvegliare l’apatica società italiana descrittaci da De Rita, non attingiamo a questa straordinaria riserva? Milita a favore del fattore D non solo il principio dell’elastico — ciò che è stato compresso a lungo, quando viene liberato fa un balzo in avanti — ma anche la capacità relazionale tipica del sesso femminile. Mai come adesso c’è da ricucire il tessuto delle relazione umane, le reti per dirla con la lingua dei sociologi e dunque non c’è miglior protagonismo che quello delle donne. E del resto proprio ieri la Camera ha approvato le norme per rafforzare la presenza femminile nei consigli di amministrazione. Che sia un segno del destino?
Dario Di Vico