Christopher Duggan, Corriere della Sera 04/12/2010, 4 dicembre 2010
GLI INTELLETTUALI DEL SUD SCONFITTI DAI «LAZZARONI»
La cittadina di Civitacampomarano, in provincia di Campobasso, vanta due illustri figure del Risorgimento: Gabriele Pepe, patriota, soldato e scrittore, che nel 1826 sfidò e sconfisse in un celebre duello il poeta francese Lamartine, che aveva parlato dell’Italia in termini dispregiativi, definendola terra «del passato», «cumulo di rovine», dove «tutto è sopito» («terra dei morti» era l’epiteto preferito), e Vincenzo Cuoco. Cuoco e Pepe erano cugini di primo grado, quasi a voler ribadire quanto fossero cruciali i rapporti di parentela come strumenti di creazione e trasmissione delle idee (e non di rado delle azioni) nel corso del Risorgimento. Basti pensare, per esempio, ai legami di sangue che intercorrevano fra le tre principali famiglie patriottiche dell’Italia del Nord: i Manzoni, i d’Azeglio e i Balbo. Nel 1913 un’imponente statua in onore di Pepe fu inaugurata a Campobasso alla presenza del cugino del re. Ma a Vincenzo Cuoco non fu mai eretta una statua, benché Cuoco sia un protagonista della storia italiana ben più importante e interessante di Pepe. Lo stato liberale, in particolare nel 1913, si preoccupava più di celebrare le gesta militari che le conquiste intellettuali del Risorgimento.
Cuoco era nato nel 1770 in una famiglia della ricca borghesia e aveva studiato giurisprudenza a Napoli, di cui frequentava l’élite intellettuale di una città rinomata tra i massimi centri europei del pensiero illuminista. Si era infiammato per gli ideali della Rivoluzione francese e nel 1799 aveva partecipato con entusiasmo alla nascita della repubblica liberale partenopea.
Ma la sanguinosa repressione della rivoluzione napoletana, per mano dell’«Armata della Santa Fede» del Cardinal Ruffo, formata da contadini meridionali spalleggiati da folte schiere di lazzaroni, il proletariato urbano, impressionò vivamente Cuoco. Costretto all’esilio come punizione per il ruolo svolto nella Repubblica, nel 1801 fece stampare a Milano le sue riflessioni su quei tragici eventi nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799. Il problema principale nel 1799, secondo Cuoco, era stato il divario culturale e intellettuale tra i capi della rivoluzione e le masse. I primi erano esponenti colti delle dottrine progressiste, per lo più di ispirazione straniera, che propugnavano libertà, uguaglianza, istituzioni repubblicane e diritti dei cittadini, e vedevano nella Chiesa il loro principale nemico; i secondi abitavano ancora un mondo conservatore, in cui predominava la sottomissione alla Chiesa e al sovrano.
Indubbiamente per Cuoco, come per molti altri intellettuali di estrazione provinciale nel Risorgimento, questa dicotomia tra l’élite e le masse si era già palesata durante gli anni giovanili, trascorsi nell’arido panorama, sia dal punto di vista culturale che materiale, di Civitacampomarano. Anzi, un potente stimolo verso la concezione dell’«Italia» nel Risorgimento nasceva spesso dal desiderio, da parte di intellettuali sradicati, di trovare una «casa» alternativa alla «piccola patria».
Come dice Cuoco nel Saggio, coniando una frase destinata a riecheggiare nei dibattiti risorgimentali fino ad approdare nel ventesimo secolo (specie nell’opera di Antonio Gramsci): «La nostra rivoluzione, essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse … La nazione napoletana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima … Alcuni erano divenuti Francesi, altri Inglesi; e coloro che erano rimasti Napolitani, e componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Così la coltura di pochi non aveva giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile, e che non intendeva».
Cuoco mette il dito su quello che sarebbe stato l’ostacolo principale dei patrioti italiani per tutto il Risorgimento (e sotto molti aspetti anche dopo il 1860): come convincere milioni di uomini comuni ad accogliere con entusiasmo i nuovi concetti astratti quali libertà, democrazia e nazione italiana, in particolare quando tale impegno si scontrava con la tenace opposizione della principale forza morale (e anche materiale) del Paese, ovvero la Chiesa.
Cuoco, da bravo figlio dell’Illuminismo, riponeva le sue speranze nell’istruzione e nel 1803 fondò un quotidiano, Il giornale italiano, con lo scopo di contribuire a formare uno spirito nazionale ed educare gli italiani agli ideali dell’unità e dell’indipendenza. Gli italiani dovevano celebrare la passata grandezza, sosteneva Cuoco: studiare il loro Paese e smettere di pensare che tutto ciò che era di provenienza straniera fosse sempre migliore. E lo Stato doveva farsi carico dell’istruzione pubblica e puntare a formare cittadini responsabili: occorreva trasformare i lazzaroni in italiani.
In un altro tentativo di incoraggiare la diffusione degli ideali patriottici tra un pubblico più vasto, Cuoco si misurò con la letteratura e nel 1804-06 pubblicò un romanzo alquanto astruso e sconclusionato (anche se di grande successo) intitolato Platone in Italia. Il romanzo, redatto nella forma epistolare allora in voga, descrive le peregrinazioni immaginarie nella Magna Grecia del filosofo Platone in compagnia di un giovane discepolo, Cleobulo. Durante il viaggio, i due scoprono le tracce di un’altissima civiltà «italica», antecedente la conquista greca, dimostrando così che l’Italia è la culla dell’intera civiltà occidentale.
L’idea di stimolare la nascita del patriottismo italiano magnificando la supremazia culturale della penisola avrebbe lasciato il segno nel Risorgimento, specie nell’opera di Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli
italiani (1843). È interessante tuttavia osservare come sia Cuoco che Gioberti si sentissero obbligati ad attribuire le origini dell’Italia a una popolazione mitica (i Pelasgi, nel caso di Gioberti): evidentemente gli antichi romani non rappresentavano un esempio da emulare per un popolo che lottava per l’indipendenza e la libertà dall’oppressione straniera.
Cuoco nutriva grandi speranze per l’impatto positivo del suo romanzo. Disse a Eugenio de Beauharnais, viceré del Regno d’Italia, che, nel ricordare ai suoi lettori le glorie trascorse dell’Italia, mirava a «formar la morale pubblica degl’italiani, ed ispirar loro quello spirito di unione, quell’amor di patria, quell’amor della milizia, che finora non hanno avuto».
In seguito alla conquista del Sud da parte delle forze napoleoniche nel 1806, Cuoco fece ritorno a Napoli, dove occupò un certo numero di importanti incarichi pubblici nel governo di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. Non sorprende scoprire che un settore cui dedicò gran parte delle sue energie fu la scuola: nel 1809 stilò un Progetto per l’ordinamento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli.
Gli ultimi anni della vita di Cuoco furono dolorosi. Il crollo dell’ordine napoleonico nel 1814-15 e la restaurazione imposta in tutta Italia dagli Stati dell’ancien régime, fondati sull’alleanza fra trono e altare, furono causa di profonde delusioni. Cuoco si ritirò progressivamente dalla vita sociale e intellettuale e cadde in preda a una malattia nervosa che l’avrebbe portato alla morte nel 1823.
A Vincenzo Cuoco spetta un posto di tutto rilievo nella storia del Risorgimento, soprattutto per la chiarezza con la quale indirizzò l’attenzione pubblica sul problema centrale dei patrioti del secolo XIX: come gettare un ponte tra le élite colte e le masse, e come portare queste ultime a credere in una comunità nazionale liberale e democratica. E forse il messaggio di Cuoco resta ancora valido ai nostri giorni.
CHRISTOPHER DUGGAN
Direttore del Centre for the Advanced Study of Italian Society all’Università di Reading. Autore de La forza del destino, Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Laterza ( traduzione di Rita Baldassarre)