Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 04/12/2010, 4 dicembre 2010
CONTRADDIZIONI E MISTERI
Ha raccontato Massimo Ciancimino, in uno dei suoi innumerevoli e fluviali interrogatori, che la conoscenza tra il misterioso «signor Franco» e suo padre risale al tempo in cui ministro dell’Interno era il siciliano Franco Restivo: «In quel periodo si era consolidato questo tipo di rapporto, che poi si è protratto nel tempo». Restivo guidò il Viminale fra il 1968 e il 1972, un arco di tempo nel quale Vito Ciancimino fu anche sindaco di Palermo e restò un potente Ras democristiano in città e non solo. Gianni De Gennaro, invece, in quella stagione era uno studente universitario. È bastato questo ricordo, nei magistrati che indagano sulle presunte commistioni tra mafia e istituzioni, a far vacillare la credibilità di Ciancimino jr quando ha fatto balenare l’idea che il misterioso «signor Franco» — architrave della ipotetica trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato — fosse il prefetto oggi a capo dei servizi segreti.
Oppure il ricordo di un altro verbale, nel quale il figlio dell’ex sindaco mafioso ha detto che il «signor Franco» si presentò al cimitero dei Cappuccini a Palermo, nel novembre 2002, subito dopo la sepoltura di suo padre, per portargli un biglietto di condoglianze da parte di Bernardo Provenzano, il capomafia all’epoca latitante e ricercato con potente spiegamento di mezzi. Il prefetto De Gennaro era capo della polizia già da due anni, uno dei personaggi più in vista del Paese.
La successiva correzione, e cioè che De Gennaro sia stato soltanto «molto vicino» all’agente segreto rimasto senza nome, oltre che un po’ tardiva rispetto alle altre dichiarazioni del testimone, non convince affatto gli inquirenti. I quali continuano a interrogarsi sulla personalità e sui reali obiettivi di Massimo Ciancimino, inarrestabile «dichiarante» già condannato per riciclaggio e adesso indagato per concorso in associazione mafiosa sulla base delle sue stesse ammissioni. Un personaggio che ama molto la ribalta, giudiziaria o televisiva che sia, al quale capita di commuoversi durante gli interrogatori come davanti alla telecamera.
È l’uomo che sostiene di voler riscattare il nome dato al figlio maschio, Vito Andrea, collaborando con la giustizia e aprendo gli archivi segreti del padre condannato per mafia sulla base di un’indagine condotta dal giudice Giovanni Falcone. Solo che quegli archivi li ha aperti a singhiozzo, portando ogni volta un nuovo pezzo di carta, compreso il famoso «papello» con le richieste avanzate nel 1992 dai corleonesi di Totò Riina per fermare le stragi, tra la bomba di Capaci che uccise Falcone e quella di via D’Amelio che tolse di mezzo Paolo Borsellino. L’ha consegnato dopo circa un anno di tira e molla, e ancora non ha finito di dare tutto ciò che ha promesso. All’appello manca ancora, per dirne una, un assegno di Silvio Berlusconi a suo padre di cui Massimo parlò in una telefonata intercettata con la sorella.
Di sicuro — e su questo gli inquirenti sono quasi tutti d’accordo, anche i più scettici sulla sua genuinità — Ciancimino jr ha impresso una svolta alle inchieste sulle stragi anticipando l’avvio dell’ipotetica trattativa tra boss e uomini delle istituzioni. Prima si pensava che fosse successiva alla morte di Borsellino, mentre Massimo Ciancimino ha raccontato che già prima di quella bomba suo padre cominciò a incontrare i carabinieri; da lì sono venuti alcuni riscontri alle sue affermazioni considerati importanti, come i ricordi dell’ex presidente della commissione antimafia Luciano Violante, dell’ex ministro Claudio Martelli, della sua collaboratrice Liliana Ferraro e altri ancora.
Il rampollo di casa Ciancimino è diventato un pezzo significativo del processo all’ex generale Mario Mori, imputato di favoreggiamento e indagato per concorso con l’associazione mafiosa, il quale ha sostenuto in aula che alcuni manoscritti del padre esibiti dall’ex ragazzo sono stati manomessi. E tutti sono manomettibili, dal momento che si tratta quasi sempre di fotocopie e non di originali. Un giudizio lo esprimerà il tribunale che ha ascoltato il testimone per quattro lunghissime udienze. I giudici di un altro processo invece, quello a carico del senatore Marcello Dell’Utri, non l’hanno nemmeno fatto sedere davanti a loro, considerando le dichiarazioni rese in istruttoria da Ciancimino jr troppo generiche e contraddittorie.
A parte le differenti valutazioni sull’attendibilità di dichiarazioni che spaziano fra i più importanti misteri d’Italia (dal caso Moro all’omicidio del banchiere Roberto Calvi, passando per la strage di Ustica), il principale enigma introdotto da questo anomalo testimone è proprio la figura un po’ romanzesca del sempre presente ma mai individuato «signor Franco», supposto anello di congiunzione tra le istituzioni e la mafia. Fra i tanti fogli portati agli inquirenti, c’è anche un elenco di poliziotti e prefetti piuttosto noti redatto da Massimo su dettatura del padre, ha riferito lui, per indicare il «quarto livello» del potere reale. L’unico nome sconosciuto è quello di un certo Gross, accanto al quale è tracciata una riga che lo collega al nome di De Gennaro, stavolta vergato con la calligrafia del padre. Gli accertamenti della polizia scientifica hanno stabilito che quella scritta è sovrapposta a un’altra. Segno di una manomissione successiva? Impossibile rispondere, visto che si tratta dell’ennesima fotocopia. Le indagini sul signor Gross, invece, non hanno portato a nulla.
Giovanni Bianconi