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 2010  dicembre 04 Sabato calendario

L’AFFARE DA 16 MILIARDI DELLA RETE SOUTH STREAM —

Wikileaks o no, il progetto Eni-Gazprom sul gasdotto South Stream prosegue imperterrito. Almeno sul fronte russo. Proprio ieri il capo di Gazprom Alexei Miller e l’olandese Marcel Kramer, l’ennesimo manager occidentale passato al servizio del colosso moscovita (guidava Gasunie fino a pochi mesi fa), hanno fissato a Mosca la nuova tabella di marcia. Lo studio di fattibilità relativo all’intero gasdotto, hanno detto, sarà pronto «tra qualche mese», poche parole che avvalorano le indiscrezioni circolate sulla data di aprile 2011. La prossima primavera, insomma, potrebbe così diventare una sorta di spartiacque: una volta completati i lavori preparatori si tratterà cioè di pronunciare il fatidico «sì» (o il fatidico «no») al progetto. Ma a ridosso di quel periodo l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, sarà in piena campagna per la riconferma (il suo mandato alla guida del Cane a sei zampe scade con l’approvazione del bilancio 2010). Il futuro politico di Silvio Berlusconi, invece, assumerà un connotato più preciso nel giro dei prossimi giorni.
Ma se sul versante italiano l’impegno per il supergasdotto potrebbe incontrare degli ostacoli (senza parlare della cessione di una quota del 10-15% ai francesi di Edf), resta il fatto che un progetto come il South Stream — la «corrente del Sud» — sta nel cuore del premier russo Vladimir Putin. Per ragioni strategiche, ma anche di business. I numeri sono di assoluto rilievo: secondo le più recenti stime di Gazprom (solo di qualche giorno fa) il valore dell’investimento potrebbe essere intorno ai 15-16 miliardi di euro. La capacità di trasporto sarebbe di 63 miliardi di metri cubi l’anno, e di almeno 30 miliardi in una prima fase (un Paese come l’Italia ne consuma 70 miliardi l’anno). Certo, il prezzo del gas non è più ai valori del 2008, quando i «cables» delle ambasciate Usa mostravano da una parte i dubbi della diplomazia sulla probità di Putin, e dall’altra riferivano delle voci relative a profitti extra sulle nuove pipeline italo-russe promessi a Berlusconi. Allora mille metri cubi di gas avevano un valore di mercato intorno ai 600 dollari. Con i chiari di luna degli ultimi mesi sul mercato «spot» siamo ora a 320 dollari. Ma anche con i prezzi quasi dimezzati del 2010 si arriva a valori stratosferici: ricavi da vendita che potrebbero aggirarsi sui 10 miliardi di dollari l’anno per arrivare, a tubi stracolmi, a 20 miliardi.
Tra chi verrebbe ripartita questa montagna di quattrini? La fetta maggiore andrebbe ovviamente a Gazprom, e all’Eni solo se il socio russo decidesse di «passare» a quello italiano una parte del suo gas, da vendere per proprio conto sui mercati dell’Occidente. Il Cane a sei zampe, nel progetto South Stream, ha soprattutto il compito di realizzare la parte sottomarina, quei 900 chilometri di tubi a profondità di 2.200 metri che congiungeranno la costa est del mar Nero alla sponda bulgara. È la porzione tecnicamente più complessa, che rende quasi insostituibile agli occhi dei russi la partecipazione dell’Eni e dei mezzi navali della controllata Saipem. Se non ci fosse l’opportunità di vendere del gas in proprio (uno dei tanti dettagli sconosciuti nell’accordo italo-russo e nei protocolli aggiuntivi) i profitti del gruppo di San Donato arriverebbero dai frutti della «semplice» (si fa per dire) costruzione del gasdotto. Cioè dalle tariffe di trasporto praticate (e concordate a priori proprio per consentire ritorni certi) e dagli interessi riconosciuti sulle garanzie concesse alla South Stream Ag, la società costituita con Gazprom a gennaio 2008 nell’ameno cantone svizzero di Zugo. Dettaglio, quest’ultimo, di non secondaria importanza: perché creare una società comune con i russi proprio in Svizzera e non in un qualsiasi Stato dell’Unione Europea?
Per il resto l’interesse di Gazprom in un’opera come il South Stream si dispiega su livelli diversi, dai quali l’Eni è escluso. Il passaggio del gasdotto nei Balcani, ad esempio, serve a rinsaldare antiche affinità politiche e di affari. Prova ne è che i negoziati con i governi bulgaro, serbo, greco, turco, ungherese e sloveno, e con le relative società dell’energia, sono stati a cura del tandem Putin-Miller. Con i serbi, poi, è stata costituita, sempre in Svizzera e sempre a Zugo, un’altra società mista, la South Stream Serbia Ag. Copione collaudato, quindi.
Forse ci sono solo due fatti che potrebbero sparigliare le carte sul fronte di Mosca. Il primo è l’ostilità dell’Unione Europea, che con le sue direttive sul gas e le reti ha scatenato nei giorni scorsi a Berlino la reazione inviperita di Putin. Il secondo è il regime «amico» che si è ormai installato a Kiev con Viktor Yanukovich. Un evento che in teoria farebbe cadere il principale motivo «strategico» del progetto South Stream: aggirare l’Ucraina per ribadire il ruolo di Mosca come «intermediario monopolista» nei confronti dell’Europa occidentale. La partita del gas russo, insomma, si presenta ancora spinosa. E le sorprese paiono dietro l’angolo.
Stefano Agnoli