Giorgio Dell’Arti, La Stampa 4/12/2010, PAGINA 84, 4 dicembre 2010
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 45 - LO SCROCCO DI ROMA
Insomma un seduttore. Lo su Stato della Chiesa era in condizioni talmente pietose che s’era creata una grande attesa per questo nuovo papa. Lei dice questo perché non ha simpatia per i preti. Le cito il padre gesuita Giacomo Martina, il più grande biografo di Pio IX: «Per quanto riguarda l’aspetto temporale il bilancio è nettamente passivo». Si riferisce all’epoca di Gregorio XVI, il papa che viene prima di Pio IX. Il quale aveva a sua volta ereditato un paese in condizioni così miserevoli che i francesi, al momento della sua elezione (1831), avevano organizzato una conferenza internazionale a Roma, con austriaci, prussiani, inglesi e russi, e sottoscritto un Memorandum pieno di consigli: riformare la giustizia, creare una consulta per tenere sotto controllo il bilancio… L’aveva redatto l’inviato prussiano Bunsen, in un tono anche piuttosto secco.
Gregorio XVI era il papa del Belli. «Er Papa» , «er zor Papa» , «er zor Grigorio» , «er zommo Pontefice» , «er Papa Cappellaro» , «un Papa raro / suda fracico, e piagne, e se dispera» . Filippo Caetani lo disegnava flaccido e col naso a forma di cazzo moscio. Una bella differenza, anche sul piano fisico, col successore Pio IX. Gregorio era frate camaldolese e, in quanto bellunese, suddito di Vienna. Al momento della sua morte ci si raccomandava: «Che il prossimo non sia frate né straniero». Il Memorandum non gli aveva fatto né caldo né freddo. Una consulta che controllasse il bilancio? Ma a Roma non si faceva il bilancio. I soldi erano in mano a un prelato tesoriere, che rispondeva direttamente al papa e che alla fine del mandato veniva promosso in ogni caso cardinale. Nessuno controllava niente. Debito di 38 milioni di scudi. Disavanzo annuo medio per tutto il quindicennio: 850 mila scudi.
E come facevano? Tasse e prestiti. Prestiti nuovi per rifinanziare i prestiti vecchi. Roma era piena di banchieri foresti. A un certo punto Rothschild aveva prestato a un tasso del 35%. Belli chiamava Rothschild «Roncilli». «Hai sentito c’ha detto oggi er padrone?/Ch’avenno inteso er grann’abbreo Roncilli/ch’ar Monte ce ballaveno li grilli/ha dato ar Papa imprestito un mijone» . Il padre Martina considera Belli non solo un poeta, ma la prima fonte storica di quell’epoca. In quello stesso sonetto leggiamo: «[…] ch’a ‘sto paese già tutt’er busilli / sta in ner vive a lo scrocco e fa orazzione» . Per via degli infiniti intrighi di Curia, il conclave da cui sarebbe uscito Gregorio XVI non finiva mai e s’erano alla fine decisi - dopo due mesi di trattative - solo perché il popolo minacciava la rivoluzione se non si fosse dato avvio al carnevale. A Roma non si faceva niente.
Il paese dei balocchi? Una massa sterminata di accattoni sulle scale di tutte le chiese, ai piedi di ogni monumento, agli angoli delle strade, lungo i muri di tutte le piazze. La famosa plebe romana, anticlericale e devota. Lady Morgan, provenendo da Firenze: «Schiere di monaci e di mendicanti annunziavano l’entrata in questo Stato». Che differenza c’è con la miseria di Torino? In Piemonte la miseria era grande, ma il Paese, anche se lentamente, si muoveva. C’era una struttura di piccole proprietà, 15-30 ettari ciascuna, che garantiva stabilità al sistema. La campagna romana (205 mila ettari) era, invece, per più della metà in mano a poche decine di proprietari, in particolare il principe Borghese, il duca Sforza-Cesarini, il marchese Fabrizi, il principe Chigi, che da soli possedevano 40 mila ettari. Il resto - ottantamila ettari - era di monasteri, chiese, luoghi pii, associazioni ecclesiastiche. La Chiesa era padrona, in un modo o nell’altro, di mezzo Stato pontificio. Fuori dalla campagna romana si succedevano appezzamenti da 500-1000 ettari, roba, in genere, di nobili o di cardinali o di cardinali/nobili, una cricca che, occupando tutte le cariche pubbliche, saccheggiava senza ritegno lo Stato - considerato proprietà privata - e andava sulle terre una volta ogni cinque-sei anni, passando il resto del tempo in città a rovinarsi a bassetta, faraone, zecchinetto, macao, ventuno. La principessa Chigi s’era giocata una villa col pizzicagnolo (24 mila scudi), nobiltà decaduta sotto tutti i punti di vista, il conte Borelli aveva sposato una venditrice di frutta, il principe Poniatowski una ragazza inseguita dagli sbirri che s’era rifugiata a casa sua. Lussi che neanche si potevano permettere, debiti, rovine, e patrimoni che si concentravano in un numero sempre più piccolo di mani. Qualche furbo che s’arricchiva c’era pure, adesso come una volta. Il primo Grazioli era stato un fornaio, Torlonia aveva cominciato da rigattiere, girava per Roma col sacco in spalla e vendeva abiti usati, i suoi figli avevano poi fatto i soldi veri con le forniture militari e speculando sui beni ecclesiastici. Adesso era il momento dei mercanti di campagna, nuovi capitalisti che anticipavano gli affitti, compravano le bestie e avevano ai loro ordini centinaia di caporali.