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 2010  dicembre 04 Sabato calendario

“San Tommaso e Hegel più forti della droga” - Picari del sesso si nasce o si diventa (magari leggendo)? Come si diventa vagabondi dell’eros, tra bondage , manette, mistress con calze a rete, schiaffoni, umiliazioni, incontri multipli? Un vero nomade di tante violazioni, il 43 enne Aldo Nove da Viggiù, da poco in libreria con la bellissima peripezia autobiografica La vita oscena (Einaudi stile Libero)

“San Tommaso e Hegel più forti della droga” - Picari del sesso si nasce o si diventa (magari leggendo)? Come si diventa vagabondi dell’eros, tra bondage , manette, mistress con calze a rete, schiaffoni, umiliazioni, incontri multipli? Un vero nomade di tante violazioni, il 43 enne Aldo Nove da Viggiù, da poco in libreria con la bellissima peripezia autobiografica La vita oscena (Einaudi stile Libero). Gran guitto, arroccato nel piccolo studio milanese vicino ai Navigli, ingegno proteiforme tra divertissement e livore, oscena-messa in scena, sputi di sperma, guanti di lattice, visite a lucciole grasse, basse e con la ricrescita bianca («mi disse “hai fatto bene a venire, anche un giovane come te deve divertirsi”») che i clienti li intrattengono sulla pasta al sugo («anche le puttane fanno il sugo, cosa credi bello? e quella frase mi lasciò interdetto»), Nove, al secolo Antonio Satta Centanin, è un vero combattente. Come dimostra il suo pseudonimo «partigiano», ricavato dal messaggio che preparò l’ insurrezione di Milano nel ’45, «Aldo dice 26x1» (Nove è la somma di 2, 6 e 1). Fin dai tempi del suo primo parto letterario, Woobinda , sollevò un gran scalpore per poi diventare un militante della falange armata della «gioventù cannibale», con Tiziano Scarpa, Niccolò Ammaniti e Isabella Santacroce. Da allora le sue lance letterarie le usa per infilzare e anche per pescare nell’alto e nel basso, nei «sottosuoli» e nelle somme vette, nelle Confessioni di Sant’Agostino e in Sodoma e Gomorra , nei gironi dei cocktail più velenosi, delle benzodiazepine, dell’alcol, degli accoppiamenti a go-go. Un riccioluto e trasgressivo dio Pan della letteratura italiana, vero self made man - rara avis tra i letterati italiani -, badante di attempati signori maniaci del sesso («me ne occupavo presso una struttura religiosa, ci voleva un uomo perché facevano avances a tutto spiano anche a me e bisognava esser robusti e pronti a difendersi»), autore di testi per una linea a luci rosse («lavoro molto stimolante e creativo, stilavo brani che creassero un climax in crescendo, tipo Bolero di Ravel, che però durassero non più di 8 minuti, giusto il tempo di arrivare all’apice») e poi operaio alla fresa. Un tipo fragile e coriaceo, Nove, per il quale le letture non sono occasioni effimere e gli autori che evoca non sono arredo ma pezzi di vita: con gli scrittori percepiti come consanguinei è stato compagno di strada, di orrore e di errore perché tutti hanno punti di contatto con la sua particolare biografia. Ecco Antonio-Aldo, un ragazzino biondo dai grandi e miopi occhi azzurri, uno che se ne stava molto appartato: le sue prime strade letterarie? E quelle per arrivare lontano, agli Inferi? «Timidissimo, leggevo per colmare il vuoto. Balbettavo, con gli altri bambini non mi trovavo. Mio padre, Mario Centanin, era di origini venete; mia madre, Gianna Satta, veniva dalla Sardegna. Avevano aperto un’edicola: libreria, profumi, giocattoli. Nel giro di due anni, fra i 16 e i 17, perdo entrambi i genitori. Ero bravissimo a scuola e già cominciavo per conto mio a tradurre poeti greci e latini. Da piccolo consumavo tanta tv e tanti libri. Verne e Salgari i primi: a otto anni avevo già divorato una cinquantina di tomi. A spasso ci andavo portandomi dietro pesanti volumi come la coperta di Linus. Un giorno uno degli anziani che sostavano al bar mi chiede: “Non sarai mica un testimone di Geova? Giri sempre con i libri sotto il braccio”. Alle medie avevo già fatto due incontri fondamentali: la poesia contemporanea e i giornalini porno». Pietre miliari nella sua complicata «educazione sentimentale», li evoca in queste sue ultime pagine, sono l’opera del gran Marchese, De Sade, la rivista «Private» e George Trakl? «”Private” raccontava sempre la stessa storia. Una ragazza bellissima che si accoppia con due o tre giovanotti e nel finale c’è la fanciulla che sorride al lettore con il liquido seminale che le cola dalla bocca. Trakl, invece, era il poeta maledetto innamorato della sorella cocainomane, morto suicida. Decisi di fare come lui, dopo la scomparsa dei miei genitori, comprai una dose massiccia di polvere bianca. Ma era stata tagliata con le anfetamine e scatenò in me solo una terribile eccitazione erotica. De Sade, invece, lo leggevo secondo le indicazioni di Roland Barthes in Sade, Fourier e Loyola , come un “catalogo” di situazioni molto particolari». Però, poi, ecco un nuovo tentativo di farla finita. «Espedienti goffi, maldestri, cravatte annodate, corde sbagliate... nessuna efficienza organizzativa da parte mia. Solo un gesto per un po’ di attenzione... Mi sono trovato proprio come Primo Levi tornato dal campo di concentramento o come il poeta ebreo Paul Celan sfuggito anche lui alla soluzione finale: tra la necessità dell’oblio e l’impossibilità di dimenticare. La letteratura non aiuta, entrambi sono morti suicidi». Un’altra volta «inciampa» in un atto mancato, una bombola di gas che esplode. «Niente di più facile se la maneggi quando sei ubriaco e ti sei preso pure qualche pozione micidiale. Questa storia che mi è saltata in aria la casa l’avevo anche scritta in Woobinda e tutti quelli che la leggevano, ridevano... non credevano fosse vera. Nella tragedia c’è sempre un risvolto comico. Tra le mie letture preferite di liceale c’è stato Noi, ragazzi dello zoo di Berlino di Christiane F., simbolo della generazione che più di tutte fu vittima dell’eroina. Tutti questi libri mi evitavano la solitudine, erano una condivisione di esperienze. Oggi non esiste più la figura del tossico monotematico : c’è il politossico che si imbottisce di più sostanze mentre allora l’eroina sembrava una forma di vita alternativa a differenza della cocaina che aiuta a integrarti, a lavorare. C’era anche la musica a farmi compagnia: i Joy Division, The Cure, Lou Reed e David Bowie. Ascoltavo e mi immergevo nei Paradisi artificiali di Charles Baudelaire, nelle Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas De Quincey, mi gustavo Timothy Francis Leary, il guru delle droghe psichedeliche, e Aldous Huxley, gran sostenitore degli allucinogeni e “padre spirituale” del movimento hippie. Però ero anche innamorato della filosofia di Hegel, della sue bellissime pagine sulla natura. E proprio questo interesse mi portò fuori dalla tossicodipendenza». In che modo? «Mi iscrivo alla facoltà di Filosofia alla Statale di Milano. Lascio la droga per Hegel. Mi aiuta anche l’impegno al patronato cattolico e il mio prof, Luciano Parinetto. Anche la politica. Al liceo mi vestivo tutto di nero con le borchie e mi accompagnavo a neofascisti strafatti che ingaggiavano battaglie con i china (si pronunciava all’inglese i “ciaina”) di sinistra, barbuti, con i capelli sporchi e i maglioni sdruciti. Poi però, quando ai camerati ponevo interrogativi del tipo “Vabbè, gli ebrei li dobbiamo far tutti fuori, ma mi spiegate perché?”, mi dicevano “Rompi, fai troppe domande”. Così ho capito che avevo sbagliato parte e ho indirizzato la bussola verso i compagni». Una vita difficile anche se con i libri-amici, ancore di salvataggio, a volte, per non morire: li ha usati anche come arma di seduzione? «Da adolescente davo le mie poesie alle ragazze. Alcune le copiavo da Montale e dicevo che erano mie. Loro erano ammirate. A una puttana russa ho regalato L’idiota di Dostoevskij: era colta, frequentava l’università». E quando diventa caporedattore della rivista «Poesia» di Crocetti? «Regalavo versi altrui senza più addebitarmeli». Ultima vicenda passional-intellettuale? «La visione dei Demoni di Dostoevskij nell’allestimento di Peter Stein, uno spettacolo che “lordo” dura 12 e “netto” 8 ore (due pause per mangiare e due per la pipì), meraviglioso, un’esperienza intensa come con i libri: come leggere la Summa teologica di Tommaso d’Aquino alternata a Hegel, cosa desiderare di più?».