GIUSEPPE MARCENARO, Tuttolibri La Stampa 4/12/2010, pagina IX, 4 dicembre 2010
Questi fantasmi aspettano un flash - Ai fantasmi intanto bisognerebbe credervi. E credendovi aver la certezza di poterli agguantare in qualche modo: con l’udito, l’olfatto, il tatto e la vista
Questi fantasmi aspettano un flash - Ai fantasmi intanto bisognerebbe credervi. E credendovi aver la certezza di poterli agguantare in qualche modo: con l’udito, l’olfatto, il tatto e la vista. Inoltre, per condividere con qualcuno il fatto d’averne sorpreso uno, non limitandosi a evocarlo come allucinazione individuale, trovare qualche maniera per «documentare» l’apparizione. Insomma, tentare di convincere non soltanto a parole. Magari con qualche prova alla mano, rendendo concreta una «materia» labile e imprendibile. E qui, quale possibile supporto di allucinate visioni, irrompe la fotografia, almeno dal 1839, da quando fu inventata, e che da allora raddoppia ossessivamente ogni cosa e fatto della nostra esistenza, imponendo, quale convinzione generale, che ogni cosa o persona fotografata esista, e situazione fermata con l’obiettivo sia realmente avvenuta. Per cui l’immagine fotografica sarebbe la prova «concreta» dell’esistenza di qualunque cosa caduta sotto l’attenzione della camera e impressa sulla lastra. Sull’obiettività della fotografia bisogna però fare atto di fede. Ricordare che è anche e giustamente definita il testimone infedele perché è capace, nel suo autonomo e sublime specifico, di «inventare» i più abbaglianti artifici. Si fa strada comunque, tra fantasmi e fotografia, l’illusoria ipotesi di poter coniugare due labilità parasensibili, dando luogo a uno dei più gioviali e spericolati esercizi d’inganno connessi alla percezione e allo sguardo. Pensata sublime quella di riuscire a «far vedere» un fantasma con la macchina fotografica. Che è come voler catturare un passero mettendogli il sale sulla coda. Fortuna vuole che «mette a fuoco» il disequilibrante teorema il saggio Fotografare gli spiriti, Il paranormale nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di John Harvey - specialista in relazioni tra religiosità e punti di vista, con particolare attenzione all’immagine e all’immaginario - che, in duecento pagine fitte, «documenti alla mano», pubblicando una parade di fotografie, dimostra come l’esistenza «concreta» del fantasmatico (ovverosia la turbe spaventagente sotto forma di ombre, presenze e apparizioni) sia stata scientificamente provata con l’ausilio della macchina fotografica. A questo punto, di fronte all’ obiettività della fotografia, secondo convinzione diffusa, vedendo i fantasmi fotografati, bisognerebbe rivedere i propri individuali dubbi. E accettare tout court , e senza batter ciglio, che gli spiriti esistono e la fotografia è il loro testimone oggettivo. Il fantasma fotografato, come ognuno intuisce, è in realtà il risultato di effetti ingannevoli provocati da fondali, sfocature, mossi voluti e montaggi; e trovò terreno fertilissimo specialmente in un tempo, la seconda metà del XIX secolo, in cui l’acribia di provare scientificamente ogni fenomeno paranormale si coniugò alla diffusa voga delle sedute spiritiche pubbliche e private. Senza tener conto del profluvio delle apparizioni di Madonne, Santi ecc., con in sovrappiù l’avvento modaiolo e la diffusione della fotografia che, vissuta come ineccepibile documento, fece il resto giacché, «nata» dall’unione tra scienza e valenze alchemiche, era proprio un «ideal specifico» per agglutinare le pulsioni misteriosofiche di una società ammaliata da positivismi portati all’eccesso e fedi coniugate con l’isteria. Individuali e collettive. La moda di fornire visioni chimeriche per diffondere certezze, con la supposta inequivocabile autenticità della fotografia - raccontata da Harvey con profluvi di esempi e spericolate quanto godibili situazioni, con storie, trescatori col mistero e maestri eminenti d’argomento - indusse allora un bel girone di fotografi a riconvertirsi in sublimi falsari dell’immagine. Individuati facilmente i trucchi che il procedimento fotografico consentiva, nacque un vero e proprio filone «artistico»: la fotografia spiritistica rituale alla quale, come soggetti d’esperimentazione, si sottoponevano fideistici gonzi. Messi in posa nello studio del fotografo, appositamente allestito con scenografie tra la camera mortuaria e il cabinet occultista, stavano immobili in attesa dell’ evento che si palesava sul fondale alle loro spalle. Evento sovrannaturale che potevano contemplare soltanto quando il soddisfatto fotografo, paraninfo dell’aldilà, consegnava loro il cartoncino, con il loro ritratto e spettro incombente, suscitando tremore e meraviglia. Si vedevano così estatici, sovrastati dall’ombra evanescente di chissà quale zio defunto o protetti dall’ala di un angelo di passaggio. Il miracolo era avvenuto. La fotografia aveva catturato il fantasma che, fissato, conferiva il valore di evento soprannaturale alla seduta fotografica. Di fatto le immagini specializzate in ectoplasmi divennero dei veri e propri santini di un bell’ ingorgo di creduloni, preda di fideismi d’accatto e gabbati da autentici trescatori con l’occulto. Insomma, tra inganni ottici orditi da furbastri, alla memoria passò un vero e proprio genere: la fotografia dei fantasmi, impronta di una bella schiera di creduloni, inconsci contributori di un curioso settore della storia della fotografia.