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 2010  dicembre 04 Sabato calendario

L’EUROPA DEVE IMPARARE DALL’AMERICA

L’ alto funzionario del Tesoro statunitense è ritornato bambino in un istante, chiudendosi la bocca con un’immaginaria cerniera e riaprendola solo per offrirmi un sorriso di scherno e la frase più odiata dai giornalisti: «No comment». Gli avevo semplicemente chiesto un parere sull’Irlanda e le convulsioni di un’Europa che sprofonda nelle sabbie mobili di una crisi economica sempre più seria.

Il silenzio-sberleffo della mia fonte cela preoccupazioni gravi all’interno dell’amministrazione di Barack Obama. Nei corridoi del potere di Washington non c’è sollievo agli stenti della zona euro nonostante le recenti tensioni tra i due blocchi culminate nel rifiuto di Germania e Francia di sostenere le posizioni Usa al summit del G20 sulle cure per l’economia mondiale.
In frangenti come questi, la schadenfreude (il piacere del male altrui) – parola tedesca adottata dalla lingua inglese – è un lusso che nessuno si può permettere. E non solo per altruismo.

Gli uomini del Presidente – quelli senza zip sulla bocca – hanno paura di una «crisi di ritorno»: un malessere che, dopo essere nato in America e aver contagiato l’Europa potrebbe rimpatriare e distruggere l’anemica ripresa Usa. Se l’Europa, che nonostante i balzi giganti della Cina rimane il partner commerciale più importante per gli Stati Uniti, non ricomincia a tirare, gli sforzi americani per tenere il dollaro basso e stimolare esportazioni e crescita serviranno a poco. Invece di vendere merci e servizi al mondo, gli Usa si ritroveranno ad importare beni di cui non hanno proprio bisogno: la deflazione e la recessione made in Europe. Come mi ha detto un banchiere americano che si muove da decenni nel mondo del commercio estero, «Adesso bisognerebbe parafrasare il discorso di Kennedy a Berlino e dire; “Io sono irlandese... e spagnolo... e portoghese... e forse pure italiano”».

Il male comune, però, fa solo mezzo gaudio. Le angustie americane sono accompagnate da frustrazione per il modo in cui la zona euro e la sua banca centrale hanno affrontato i problemi prima della Grecia e poi dell’Irlanda. I signori del Tesoro non lo diranno mai in pubblico ma sono arrabbiati, e forse anche un poco offesi, dal fatto che i governanti europei sembrano aver imparato poco e niente dall’esperienza americana del 2007-2009. Una delle lezioni dell’ultima crisi è che temporeggiamenti, indecisioni e polemiche - la trinità che ha caratterizzato la risposta europea al crollo economico - non fanno altro che esacerbare i problemi e innervosire gli investitori. La Banca Centrale Europea e i ministri delle finanze della zona euro si dovrebbero rileggere i lanci di agenzia da New York e Washington del 29 settembre del 2008.

Quel giorno, poco dopo l’ora di pranzo, la Camera dei deputati Usa bocciò il pacchetto da 700 miliardi di dollari presentato dal governo Bush per comprare beni «tossici» dalle boccheggianti banche. La decisione-bomba fece tremare i mercati internazionali e l’economia mondiale per quasi una settimana – fino al nuovo voto che approvò le misure – e cambiò per sempre l’atteggiamento del mondo politico americano nei confronti della crisi. Non più compromessi e lunghe discussioni ma «shock and awe» – la tattica militare dello «sciocca e impressiona» (che non ha funzionato in Iraq, ma questa è un’altra storia) ovvero spendere miliardi di dollari per convincere gli investitori, le banche e i cittadini che lo Zio Sam faceva sul serio. Nello spazio di poche settimane, il governo utilizzò 250 di quei 700 miliardi per ricapitalizzare una decina di banche, un’azione senza precedenti nella storia del Paese, e creò altri fondi speciali per comprare mutui, obbligazioni e persino case. Ricordo bene l’espressione tesa ma sicura sulla faccia di uno dei consiglieri di Tim Geithner, allora presidente della Federal Reserve di New York ed ora ministro del Tesoro, quando gli chiesi di riassumere la ricetta Usa per salvare il sistema finanziario. «Compriamo tutto. E se non basta compriamo di più», mi disse. E non stava scherzando. Fu una strategia rischiosa, criticata e probabilmente ingiusta – perché salvare Wall Street quando milioni di cittadini sono senza lavoro? – ma che si è rivelata fondamentale ad evitare il peggio: il passaggio da una recessione dura ma sopportabile ad una Grande Depressione come quella degli Anni 30. Al confronto, la strategia europea sembra più «divide et impera» che «shock and awe», almeno vista dall’altra parte dell’Atlantico.

La tragedia greca e quella irlandese hanno seguito copioni simili: rifiuto di ammettere la gravità della situazione da parte del governo locale, la Bce e l’Unione Europea; crollo della fiducia dei mercati; litigi tra Paesi guida e nazioni «periferiche»; aiuti di emergenza che mettono una pezza ma potrebbero non risolvere nulla nel lungo termine. Una diagnosi troppo negativa? Non secondo i mercati, che dopo il pacchetto-Irlanda hanno venduto euro come se piovesse e costretto Paesi come l’Italia, la Spagna ed il Belgio ad aumentare i tassi d’interesse sul loro debito.

Vecchi amici di Bruxelles con cui ho parlato per questo articolo mi hanno accusato di «voler fare l’americano» – di aver dimenticato le peculiarità e le idiosincrasie di un’Europa composta da nazioni sovrane. E’ vero che i Presidenti americani non sono esposti al fuoco incrociato di interessi nazionali quasi sempre divergenti – la Germania e la Francia e altri Paesi di peso hanno de facto potere di veto su qualsiasi decisione europea mentre la California non può bloccare gli aiuti di Washington alle banche della North Carolina. E non c’è dubbio che gli avvenimenti degli ultimi tre anni hanno dimostrato che nonostante la passione americana per il federalismo, nei momenti di crisi è il governo centrale ad intervenire con soldi e leggi. Ma le (molte) imperfezioni dell’Unione europea non possono essere addotte a scuse per l’incapacità di far fronte ad una crisi senza precedenti. Non ci dimentichiamo che la creazione dell’euro e della Bce, una banca «centrale» come la Fed, avrebbe dovuto facilitare la cooperazione economica tra diversi Paesi, soprattutto nei momenti difficili. Fino ad ora, però, l’Europa non è stata all’altezza della situazione in parte perché le miriadi di interessi locali, politici e di facciata hanno fatto sì che i suoi governanti non siano stati in grado di riconoscere le due dure realtà imparate dal governo americano nel settembre di fuoco del 2008. In momenti di crisi, gli interlocutori più importanti sono i mercati - non l’opinione pubblica, non la stampa e non gli altri Paesi, ma gli investitori con il potere di fare o disfare economie intere. E i mercati non vogliono parole o lunghi incontri a Bruxelles o Washington ma azioni repentine, decisive ed efficaci. Come disse tanto tempo fa un pensatore, europeo non americano, «il fine giustifica i mezzi».