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 2010  dicembre 04 Sabato calendario

Ora vi spiego il vero Carver, fragile e violento - A Stanford eravamo diventati amici di [...] Max Crawford

Ora vi spiego il vero Carver, fragile e violento - A Stanford eravamo diventati amici di [...] Max Crawford. Non passò molto tempo prima che anche Max facesse il suo viaggio inaugurale nel Mon­tana e iniziasse a fare comunella con tutte quei bravi vecchi ragaz­zi tipo James Crumley. Max era del Texas, così quando quei ragaz­zi del Montana lo presero fra loro, stavano prendendo qualcuno che poteva restituire loro pan per focaccia. Egli era un socialista, e i suoi romanzi si occupavano di li­bertà e di equità sociale per la clas­se operaia. Una volta ci venne a trovare e disse a Ray che era incredibile che i suoi racconti avessero come protagonisti un gruppo di perso­ne che normalmente non aveva­no alcun ruolo nella finzione lette­raria. «Non hai idea, amico» gli disse Max «di quello che stai fa­cendo per la narrativa america­na. I lavoratori poveri, i disoccu­pati, gli anonimi operai; le loro preoccupazioni e le loro vite sono tutti messi a nudo nella tua narra­tiva ». Ray aveva guardato Max con aria assente e perplessa. Lui non faceva alcuna indagine sociologi­ca oltre che su se stesso. Scriveva della sua gente e delle vite che conducevano, scriveva quello che sapeva. Oppure era il raccon­to stesso a venire da lui. Ray non usò mai gli occhiali della politica per vedere le cose. Durante un’altravisita,Max mi disse: «Sai, Ray ti sta facendo di­ventare pazza focalizzando la tua attenzione su lui e le altre donne. Questo è tutto quello che gli ci vuole. Distrarti così tanto che tu non possa fare assolutamente nulla per quanto riguarda i pro­blemi reali. Sei troppo impegnata a sbattere la testa contro il muro per via di qualche donna che non significa niente per lui, in confron­to a te e la sua bottiglia». Mentre rimuginavo su questa sua osservazione, ero di nuovo nel parcheggio del centro di disin­t­ossicazione e un’infermiera ven­ne fuori gridando: «Signora Car­ver! Signora Carver!». Quando mi girai per risponderle, mi disse: «Venga presto! Suo marito ha avu­to un attacco». Il personale era riuscito a salvar­lo. Ma lui era caduto e si era procu­ra­to un taglio alla fronte così brut­to che ci vollero i punti di sutura. Dopo che Ray si fu ristabilito, un medico ci portò entrambi in un uf­ficio privato. «Figlio mio, non puoi più bere», gli disse il medico. Era un uomo molto anziano, un medico coi ca­pelli tu­tti bianchi che si comporta­va in modo paterno. «Come si di­ce nel gergo, hai raggiunto la mi­sura. E una volta che hai raggiun­to la misura, quello che ti è capita­to adesso è facile che ti capiti altre volte. [...] Potresti diventare come quegli ubriaconi che hanno il cer­vello danneggiato per sempre. E che hanno perso la capacità di es­sere persone umane pensanti». Con questa sentenza che ci ri­suonava ancora nelle orecchie, si concluse il primo tentativo di di­sintossicazione di Ray. Non sareb­be stato l’ultimo; e non sarebbe stata l’ultima volta in cui lui sareb­be finito in un ospedale. Sorpre­sa, sorpresa- erano rimasti anco­ra altri livelli di auto-denigrazio­ne. Ma al momento io nero più concentrata a pensare a qualche modo per disdire la festa pro­grammata. Il problema era che c’erano ospiti che arrivavano da ogni parte, e io non avevo tutti i loro numeri. Dovevo affrontare la situazione così com’era. Lo spet­tacolo doveva continuare, quella sera. [...] Non credo che io e Ray, da allo­ra, parlammo mai spontanea­mente in pubblico. Le osservazio­ni che mi rivolgeva avevano un che di condiscendente, oppure erano gelidamente civili. Era co­me se dovesse dimostrare le sue ragioni. Ray prese la sua bottiglia e me la ruppe sulla testa. Non ricordo precisamente che cosa accadde, ma suppongo di avergli detto: «Adesso nel letto di chi ti vuoi infilare?» eravamo a ce­na dai Kinder a San Francisco. Era il luglio del ’75, la nostra pri­ma tappa sulla strada per Washin­gton, un viaggio verso luoghi fami­l­iari, io e lui da soli. Avevamo la­sciato i bambini dalla mamma di Ray. Personalmente avrei preferito essere morta piuttosto che passa­re un’altra serata dai Kinder, seb­b­ene Chuck fosse umano e diver­tente e mi piacesse. Era pura follia invitarci, ma faceva parte del titil­lamento. Diane una volta aveva detto: «Ray, finiremo per essere tutti spinti oltre il limite da questi giochi e da questi divertimenti». Ci aveva preso. I Kinder erano al centro della scena letteraria di San Francisco. Prima che andassimo da loro, Ray promise che si sarebbe com­portato bene. Questo accadde pri­ma che l’esplosiva combinazio­ne di personalità tanto forti e un fiume di alcol travolgessero tutto. Bum! Fu come se andassi in cor­to circuito. Quando rinvenni, ero coperta di sangue.Vidi che un’ar­t­eria vicino al mio orecchio schiz­zava fuori fiotti di sangue. Implo­rante ma decisa riuscii a dire «Da­temi... un medico». Qualcuno al­la fine si era deciso a chiamare l’ambulanza - credo fosse Diane. Mentre mi ricoveravano d’urgen­za al reparto chirurgia dell’ospe­dale, avevo perso quasi il 60 per cento del mio sangue. Venne an­che un prete e mi fece l’estrema unzione. La mattina seguente, mi sve­gliai affamata dentro un letto d’ospedale. Ero viva. Ero debole. Ero sveglia. Potevo essere rilascia­ta, mi dissero. Ma non volevo an­dare a casa a Cupertino, dove la madre di Ray stava badando ai bambini. Non volevo vedere nes­suno- a parte Ray. Oh sì, ero sicu­ra che quando lui avesse visto esattamente che cosa aveva fatto, sarebbe stato così preso dal rimor­so da cambiare per sempre. Chie­si aiuto a Jody Luck, una mia colle­ga di liceo, che fu carina con me. Accettò di venirmi a prendere, e da lei riuscii a riprendermi un po’. Non mi trattenni a lungo però. Quando parlai con Ray, lui era di­spiaciuto e silenzioso- e si diresse verso nord per raggiungerci. Quando me ne andai, per rag­giungere Ray in un motel a Palo Alto, la mia collega non volle più parlarmi. Non importò quante volte ci incontrassimo nei saloni della scuola o, inavvertitamente, ci sedessimo l’una vicina all’altra alle riunioni per insegnanti. Lei mi volgeva freddamente le spalle per farmi capire quello che pensa­va della mia «riconciliazione» e della mia vita ingestibile. Che cosa avrei potuto dirle? È li che sei diretto. Non puoi spiegare perché. Non puoi spie­garlo nemmeno a te stessa. È la tua vita, anche se la storia della tua vita ha smesso di avere senso. Le piccole assurdità sono fuori controllo, non sono più qualcosa di cui puoi sorridere per un minu­to quando sei ferma davanti a un semaforo lento, o mentre stai fi­nendo di bere una tazza di caffè, o mentre guardi un bambino che si addormenta. Ciò che credevi es­sere certo, non lo è più. Ciò che era chiaro, è diventato nebuloso. Avevo attraversato lo specchio. La vita in cui mi ritrovavo era quel­la sbagliata, non quella che avevo sognato o pianificato, o lavorato così duro per ottenere. Ciò che dovevo fare era riporta­re la realtà attorno a me, fare le co­se giuste, rimettere la mia vita con Ray sui binari. Questo è ciò che io credevo.Perché dovevo.Sì,dove­vo. Non è un atteggiamento mol­to trendy, no? Credo che sappia un po’ di idealismo romantico e senso femminile del sacrificio. E così sia, dunque. [...] Ma io sono la «Maryann» che puoi trovare nella poesia di Ray. Io sono anche in alcune delle don­ne dei suoi racconti. Io sono stata una fonte di ispirazione per Ray, quando lui fantasiosamente ri­mescola episodi delle nostre vite nei suoi versi e nella sua prosa. Ero la cassa di risonanza che co­nosceva i suoi amici, tutta la sua famiglia,e labrillantezza dell’uo­mo - molto prima che lui fosse il noto autore di qualcuno. Non ci si dimentica di qualcuno insieme a cui si è passato un momento diffi­cile. E questo è quello che è capita­to a noi.