Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 3/12/2010, 3 dicembre 2010
SOUTH STREAM STA VINCENDO IL DERBY DEL GAS CON NABUCCO
Dalle pianure macedoni, invase dai profughi albanesi del Kosovo, la voce cavernosa del generale britannico Mike Jackson indica già nel ’99 un obiettivo strategico della guerra. «Siamo qui anche per difendere i corridoi dell’energia che attraversano i Balcani e raggiungono l’Europa», proclamò prima di entrare in una tenda per firmare il cessate il fuoco con i serbi. Ed è proprio in Serbia che si poseranno i primi tubi del South Stream, il gasdotto russo della Gazprom in joint-venture con l’Eni e la Turchia dove insieme ai francesi della Edf stanno per entrare anche i tedeschi: sarà pronto nel 2015.
Il South Stream sta vincendo il derby del gas con il concorrente Nabucco, sostenuto dagli americani e in parte dall’Unione europea. La compagnia Serbijagas, legata a filo doppio con la Gazprom, è pronta ad avviare i cantieri del tratto onshore del South Stream già nel 2012. Questo consente un grosso vantaggio sul Nabucco, che aggira la Russia, puntando direttamente sui giacimenti del Caspio e dell’Asia centrale fino all’Austria, facilitando l’affrancamento da Mosca. Una logica opposta al South Stream che dovrebbe garantire invece le forniture russe bypassando Ucraina e Bielorussia, avviluppate da anni in estenuanti contenziosi con Mosca. La pipeline scorre per 900 chilometri nelle acque turche del Mar Nero fino al porto bulgaro di Varna, per poi diramarsi in tutta Europa.
Il derby del gas è una delle partite più importanti per l’Eurasia, il continente emerso dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’Urss: coinvolge direttamente la Russia, l’Europa e l’influenza degli Stati Uniti in un’area che comprende la Nato, il Medio Oriente e l’Asia centrale.
Per questo è così articolato il rapporto reso noto da WikiLeaks dell’ex ambasciatore Usa a Roma, Ronald Spogli, sulle relazioni Italia-Russia: sullo sfondo ci sono grandi interessi economici ma anche gli schieramenti nei conflitti dell’ultimo decennio, dai Balcani all’Iraq, fino all’Afghanistan. E forse anche di quelli che verranno, perché nella partita del gas l’Iran, secondo paese al mondo per riserve dopo Mosca, rimane per il momento ai margini dei grandi progetti, frenato dalle sanzioni per il nucleare.
L’evoluzione dei rapporti degli americani con Mosca e con Teheran sarà quindi fondamentale per capire il futuro dell’Eurasia, anche sotto il profilo energetico. Tanto più che Washington vede sfumare la centralità del Nabucco: alcuni dei fornitori come il Turkmenistan sembrano intenzionati a rientrare nell’orbita di Mosca per esportare a Oriente, verso l’India o la Cina.
Non c’è dubbio che nel progetto South Stream il ruolo decisivo è stato svolto dai rapporti personali tra Putin e Berlusconi, con il coinvolgimento della Turchia di Erdogan, l’altro alleato Usa che ha cambiato di 180 gradi la politica estera con una forte proiezione a Est e in Medio Oriente. Quella del presidente del consiglio è una diplomazia privata, degli "amici" e degli affari - a volte non trasparenti, come sostiene il rapporto di Spogli - degli incontri riservati, sotto una tenda con Gheddafi o in un dacia di Putin, non quella dei "comuni" leader mondiali. È singolare però che in Italia sia stato quotidianamente tallonato per i suoi guai con giudici ed escort ma pochissimo interpellato sulle scelte strategiche.
Ma ci sono delle ragioni storiche e attuali: la politica energetica dell’Eni, sin dai tempi di Mattei, è stata quella dell’Italia, coinvolgendo per adesione convinta o per interesse gran parte delle formazioni politiche, che ne hanno tratto dei vantaggi. Gli stessi americani, poi, hanno lasciato fare. In un vertice sull’Afghanistan a Villa Madama del 20 ottobre, dove il generale Petraeus si diffondeva in grandi lodi sui soldati italiani, è stato chiesto a un alto funzionario della Farnesina, non ancora salito agli onori di WikiLeaks, se gli americani fossero nervosi per i rapporti di Berlusconi con Putin e Gheddafi: «Certo che lo sono: ma essere in Afghanistan a rischiare la pelle e a morire ci permette di avere queste relazioni con Mosca e la Libia».
Il generale Jackson aveva già spiegato alcune cose un decennio fa ma forse non poteva prevedere il resto. Il comandante della Nato Wesley Clark gli chiese allora di paracadutare una compagnia per sloggiare da Pristina i russi, arrivati con una colonna dalla Bosnia prima della Nato. La sua risposta rimase famosa: «Non ho nessuna intenzione di scatenare una terza guerra mondiale» e spedì a trattare il figlio Mark, anche lui ufficiale. I russi si dileguarono in silenzio per poi tornare oggi, nel cuore dell’Europa, non con i soldati ma con le pipeline.