Traveller, dicembre 2010, 3 dicembre 2010
La scorsa settimana hanno avuto il battesimo della neve sul monte Koh-e-Baba. La loro eterogenea collezione di sci di seconda mano è stata trasportata a dorso di mulo
La scorsa settimana hanno avuto il battesimo della neve sul monte Koh-e-Baba. La loro eterogenea collezione di sci di seconda mano è stata trasportata a dorso di mulo. I novellini hanno bellamente ignorato la lezione sulla stratificazione degli abiti e si sono lanciati in pista con jeans e giacconi taroccati. Dieci minuti, ed erano tutti a barbellare. In totale, sei paia di sci, due dei quali prestati da una coppia di americani, Chad Dear e Laurie Ashley, convinti che in Afghanistan centrale ci siano alcuni dei migliori comprensori del mondo. Il mix di sci da Telemark e da discesa è compensato da quelli che si trovano nei bazaar, letali assi di legno scolpite da entusiastici carpentieri locali: laccetti di cuoio al posto degli ski-stop e fondo avvolto nel metallo. «Jon, così non l’avevi mai fatto!», mi ha detto Abdullah Mahmood, neosciatore venticinquenne, dopo aver assistito ai miei dieci traumatici minuti di prova (quelli in cui ho creduto che, nonostante il mio pedigree decennale, lo sci mi avrebbe infine richiesto il suo tributo di ossa rotte). È da questi umili presupposti che Bamiyan, provincia povera ma bella da toglierti il fiato, spera di poter costruire un’industria sciistica di tutto rispetto. Non c’è solo il sogno di un piano di sviluppo dell’ecoturismo invernale, ma pure sostanza: il governatore della provincia, l’Aga Khan Development Network e il governo neozelandese (per via delle truppe che il Paese ha qui). Dear pensa che nel giro di qualche anno Bamiyan potrebbe cominciare con lo ski rental (molto probabilmente grazie alla generosità delle grandi fabbriche), un impianto baby con una semplice manovia e magari anche un servizio di eliski. Dear e Ashley sono qui per esplorare le vette ancora vergini di Bamiyan e pubblicare una guida che fornisca agli sciatori avventurosi qualche informazione di base sulla zona di Koh-e-Baba. Per un certo tipo di turista Bamiyan è piuttosto attraente. Non, ovviamente, per chi ama le seggiovie, i ristoranti e i comfort dei mega-resort europei o americani. Perché qui, se vuoi arrivare in cima a una pista, devi arrangiarti da solo, usando gli sci da Telemark con le caviglie che si muovono libere e le pelli di foca sintetiche attaccate al fondo. È la vecchia scuola, familiare agli sciatori anni Cinquanta: un giorno di estenuante ascesa per (forse) una o al massimo due piste. Ma ne vale la pena, dice Dear: «Il paesaggio qui è fantastico e noi abbiamo esplorato soltanto le otto valli più vicine a Bamiyan. Ci sono migliaia di possibilità sia per i principianti sia per gli esperti». Altro dato di fatto è che l’après-ski locale non andrebbe a genio a certi inglesi birraioli. Qui si trovano chai, un po’ di riso, pane naan e carne grassa. Quella che Dear chiama l’esperienza après-tea varrebbe da sola una vacanza. Prima di tutto lo scenario: meraviglioso. Sotto le cime innevate, i contadini che vivono nelle capanne di fango arano i campi con i buoi. La sensazione di viaggiare indietro nel tempo è interrotta da qualche sparuta antenna satellitare, segno che, dopo tanti anni di oblio, le cose cominciano a muoversi anche qui. Ed ecco l’altro benefit dello sci a Bamiyan: contribuire «economicamente» ai bisogni dei contadini nelle valli isolate di una provincia poverissima e lasciata a se stessa. E non solo dove i giganteschi Buddha sono stati fatti saltare in aria dai talebani nel 2001: la milizia fondamentalista è responsabile anche del massacro dell’etnia Hazara. Oggi Bamiyan è un’isola di sicurezza in un Paese dove la guerriglia si è diffusa come un virus e la valle è la principale (o meglio, l’unica) attrazione turistica. I visitatori non vengono soltanto per il sito Unesco dei Buddha, ma anche per i laghi e le bellezze naturali di Band-e Amir. I ragazzi che aspirano a diventare guide sperano anche di accompagnare i turisti d’estate. Nonostante le indubbie qualità di Bamiyan, il viavai estivo non frutta un granché: lo scorso anno i siti storici sono stati visitati da 1.560 afgani e 756 stranieri (un dato in diminuzione rispetto all’anno precedente, forse a causa della spaccatura avvenuta con le elezioni presidenziali nel 2008). Ma anche questi piccoli numeri generano un’entrata di circa 250.000 dollari all’anno nei tre alberghi dei quali le autorità turistiche hanno informazioni. Amir Foladi, manager del programma ecoturistico di Bamiyan, spera che entro il 2015 i 116 letti attualmente disponibili diventino un migliaio, creando almeno mille posti di lavoro. Sogna 10.000 visitatori stranieri e 100.000 afgani all’anno, con entrate di 5 milioni di dollari esclusi i ricavi di autisti, ristoranti e negozi. Un sacco di soldi per bami-yan, che trasformerebbero il turismo nella terza più importante voce economica, dopo agricoltura e miniere. «È solo questione di preparare la città, aiutando gli albergatori a migliorare i servizi, così che siano i cittadini di Bamiyan a beneficiarne e non altri», spiega Foladi. Esistono vari progetti per rendere più accessibile la valle. Ora ci sono due modi per arrivare da Kabul: con la strada lenta ma sicura dal passo Sibber (otto estenuanti ore per 200 km), o con la più veloce ma molto pericolosa via che passa attraverso il territorio talebano a sud. Sono in corso lavori di ampliamento della strada del passo Sibber, che offre paesaggi indimenticabili. Quando il percorso sarà ultimato e asfaltato il viaggio non durerà più di quattro ore. Un giorno, all’aeroporto fuori città, potrebbero persino atterrare i charter dei weekend. Ed è possibile che Bamiyan riesca anche a riavere i suoi Buddha. Ma la domanda è un’altra: anche con tutti questi investimenti, Bamiyan riuscirà mai a diventare qualcosa di più di una destinazione estiva per pochi? Ken Adams, il primo turista sciatore della città, pensa di sì. Dopo aver lavorato tra le piste delle Alpi francesi, ora dirige un’organizzazione non governativa a Kabul. Nonostante qualche attimo di apprensione dovuto alle valanghe, riconosce che questo è il posto giusto per chi desidera «un po’ di sci estremo». «E per tutti gli altri c’è un’enorme, fantastica quantità di neve e una stagione che in un anno normale dura fino a maggio o ai primi di giugno», dice. L’incognita vera è se gli afgani prenderanno mai in qualche considerazione lo sci. Dear e Ashley ne sono convinti. E comunque lo sci non è del tutto sconosciuto da queste parti. Negli anni ’60 e ’70, i diplomatici di stanza a Kabul frequentavano le piste e un miniresort vicino alla capitale. C’erano skilift, ristoranti, tea shop e un solarium per gli stranieri. Vari sci club, incluso uno diretto dal ministero dell’Educazione e un altro dall’università di Kabul, gareggiavano tra loro. Dopo l’invasione sovietica del 1979, l’area è stata disseminata di mine. Mohammad Yousuf Kargar ha conosciuto lo sci a Kabul da ragazzo, grazie a un impiegato della Siemens che si lanciava giù da una collina. Da allora non ha più smesso. Ha testato le piste di Bamiyan per la prima volta l’inverno scorso, ma è convinto che sia ancora troppo lontana da Kabul per diventare il centro della rinascita dello sport: «Il governo deve riaprire la vecchia pista fuori Kabul. Nel frattempo porto la famiglia al passo Salang, perché non voglio che lo sci muoia in Afghanistan». Anche se Bamiyan è tanto immune dalla violenza che sembra di stare in un altro Paese, credere che possa accogliere il turismo tra cinque anni sembra ottimistico. Mentre io rischiavo la vita con gli sci di legno, la guerra andava avanti. Isolare Bamiyan dal resto del Paese è la soluzione? «Bisogna solo sperare che le cose migliorino dappertutto. Se l’Afghanistan affonda, Bamiyan lo seguirà». Jon Boone