Daniel Barenboim, Corriere della Sera 03/12/2010, 3 dicembre 2010
WAGNER, ISRAELE E I PALESTINESI
Nella storia della musica non esiste forse altro compositore che abbia tentato come Wagner di combinare nelle sue opere elementi così evidentemente incompatibili tra loro. Le qualità che entusiasmano tanti appassionati estimatori sono spesso le stesse che deludono i suoi critici, come lo slancio verso gli estremi opposti in ogni aspetto della composizione. Seppur spingendo fino al punto di rottura i limiti dell’armonia e della forma operistica, Wagner realizzò sempre i suoi concetti musicali sotto il segno di una mirabile economia. Un’economia davvero paradossale, quella che definisce l’incomparabile dimensione delle sue strutture. Forse Wagner riteneva indispensabile fare uso frugale di certi elementi individuali, affinché dalla sua concezione dell’opera d’arte totale ( Gesamtkunstwerk) scaturissero effetti ancor più spettacolari e inattesi.
Un ottimo esempio dell’economia wagneriana si trova all’inizio del primo atto della Walkiria, dove si scatena un furibondo temporale. Persino Beethoven fece ricorso a tutta la strumentazione orchestrale nella tempesta della Sesta Sin
fonia, e dati i mezzi di cui disponeva Wagner, possiamo immaginare che il suo uragano avrebbe assunto proporzioni ben maggiori. E invece egli consentì solo agli archi di sviluppare la loro piena potenza: ne risulta pertanto un suono molto più diretto, spoglio e conciso rispetto a quanto avrebbe potuto produrre la piena orchestra wagneriana, ricca di ottoni e timpani. È la precisione delle direttive di Wagner nella strutturazione dinamica delle partiture a far risaltare l’emotività della musica. Wagner è il primo compositore a calcolare sapientemente e a esigere la rapidità dell’evoluzione dinamica. Quando vuole raggiungere un punto culminante, di solito ricorre a una di queste due tecniche: o lascia sviluppare il crescendo in modo graduale e organico, oppure consente allo stesso materiale musicale di gonfiarsi in due o tre ondate successive, fino a esplodere alla terza o quarta ripetizione.
Nelle opere wagneriane, si riscontrano casi frequenti in cui il motivo musicale s’innalza e si placa in un paio di battute, alla sua prima comparsa. La seconda volta, Wagner fa sì che il medesimo motivo si sviluppi su due accordi, seguiti immediatamente da un subito piano; solo la terza volta si raggiunge l’apice, dopo quattro battute di crescendo. È da questa equazione matematica che scaturiscono sensualità e calore; è dall’abile calcolo intellettuale del compositore che si sprigiona l’impressione di spontaneità e di pura emozione.
Un altro esempio della singolarità musicale di Wagner si osserva nel Preludio di Tristano e Isotta, nel prosieguo del celebre «accordo di Tristano». Un compositore meno geniale e con una limitata comprensione del mistero della musica si sentirebbe in dovere di portare a conclusione la tensione creata. Ma è precisamente la sensazione causata da una risoluzione meramente parziale che consente a Wagner di ribadire l’ambiguità e accentuare la tensione man mano che il processo va avanti: in ogni accordo incompiuto si cela un nuovo inizio.
La musica wagneriana è spesso complessa, talvolta semplice, ma mai «complicata». La differenza è sottile, ma la complicazione sta spesso nell’uso di meccanismi o tecniche non indispensabili ma che rischiano di offuscare il significato della musica. Tutto ciò è assente nell’opera di Wagner. La complessità, d’altro canto, è sempre incarnata nella musica di Wagner dalla multidimensionalità. La musica è sempre composta da molti strati, talvolta individualmente semplici, ma che nel loro insieme innalzano un edificio complesso. Quando Wagner trasforma un tema o lo arricchisce, è sempre nel senso della multidimensionalità: le singole trasformazioni sono talvolta semplici, ma mai primitive. In altre parole, la sua complessità è sempre un mezzo, mai un fine a se stesso. Ed è sempre - per di più - paradossale, poiché i suoi effetti sanno essere così emotivi, addirittura travolgenti. Nel suo saggio «Opera e Dramma», Wagner scrisse: «Nel dramma, si arriva alla conoscenza attraverso il sentimento. La comprensione ci dice: "È così" — solo quando il sentimento ci ha già detto: "Così dev’essere"».
A mio avviso, è ancor più importante eliminare certe incomprensioni e falsi assunti su Wagner proprio perché egli viene percepito in modo spesso confuso e polemico. In questa occasione, vorrei dedicarmi anche ad altri aspetti della personalità di Wagner, che nulla hanno a che vedere con la musica, tra cui le famigerate e inammissibili dichiarazioni antisemite.
L’antisemitismo non era una novità nella Germania del 1800. Solo nel 1669 la legge aveva consentito agli ebrei di spostarsi con qualche libertà a Berlino e nelle zone circostanti, ma esclusivamente agli ebrei più abbienti era permesso di fissare la loro residenza in città. Gli ebrei di passaggio a Berlino (come Moses Mendelssohn) erano obbligati a entrare in città attraverso la porta Rosenthaler, solitamente riservata al bestiame e alle merci, ed erano soggetti al pagamento del medesimo dazio imposto a contadini e commercianti per introdurre le loro derrate. A differenza degli Ugonotti, agli ebrei era vietato acquistare terreni, commerciare in lana, legname, tabacco, cuoio e vino, come pure svolgere una professione. Nella vita degli ebrei, c’erano tasse da pagare a ogni occasione possibile e immaginabile: per gli spostamenti, per le nascite e i matrimoni, e via dicendo.
È in questo contesto che vanno considerati i pregiudizi antisemitici di Wagner. L’antisemitismo dell’epoca era un morbo diffuso da tempo immemorabile, anche se gli ebrei erano ben accolti, rispettati e spesso onorati in non pochi settori della società tedesca. Una buona dose di antisemitismo era un ingrediente indispensabile dei movimenti nazionalistici sul finire del secolo XIX in tutta Europa. Non c’era nulla di insolito nell’incolpare gli ebrei di tutti i problemi correnti, che fossero di natura politica, economica o culturale. Oltre all’odio atavico contro gli ebrei, che in passato era stato rivolto in prevalenza contro la religione ebraica, l’antisemitismo nell’ultima parte del 1800 si giustificava con criteri di "stirpe" e di "razza" e prendeva di mira la comunità ebraica europea, ormai in larga parte emancipata e integrata. Il centro di questa tendenza era Vienna.
Come tutti sanno, tali pregiudizi furono traghettati e intensificati nel XX secolo. Il direttore d’orchestra svizzero, Ernest Ansermet, in un articolo su Artur Schnabel, ebbe a dire che costui poteva essere anche un grande pianista e un meraviglioso musicista, ma che nell’ascoltarlo si aveva sempre l’impressione che doveva trattarsi di un ebreo, perché manipolava la musica come gli ebrei manipolano il denaro.
Gli storici non condonano a Richard Wagner di essere stato un antisemita della peggior specie, le cui affermazioni erano imperdonabili. Le ragioni del suo antisemitismo sono da ricercarsi in parte nel successo dei suoi contemporanei ebrei, come Mendelssohn e Meyerbeer. Le caratteristiche negative che Wagner attribuiva agli ebrei - egocentrismo e perseguimento dei propri interessi - rientravano però anche tra i suoi tratti caratteriali, e lo spinsero a fare eccezione ai suoi stessi pregiudizi antisemitici. Senza Hermann Levi non avrebbe potuto affidare il suo Parsifal ad un direttore d’orchestra altrettanto brillante e senza Joseph Rubinstein non sarebbe esistita, Wagner vivente, una partitura del Lohengrin per pianoforte.
Wagner pubblicò il saggio «Il giudaismo nella musica» per la prima volta nel 1850 sotto lo pseudonimo di K. Freigedank nel Neue Zeitschrift für Musik a Leipzig; nel 1869 lo ripubblicò come monografia indipendente sotto il suo vero nome. In quest’opuscolo Wagner scrive: «L’Ebreo — che, come tutti sanno, ha un Dio a proprio uso e consumo — nella vita ordinaria ci colpisce innanzitutto per il suo aspetto esteriore: difatti, qualunque sia la nazione europea alla quale egli appartenga, il suo aspetto ha un qualcosa di spiacevolmente estraneo a quella nazione. Istintivamente, noi non vogliamo avere nulla in comune con un uomo che si presenta a quel modo». L’unica revisione a tale affermazione che Wagner ammise fu un commento rivolto alla moglie Cosima negli ultimi anni di vita: «Se dovessi scrivere di nuovo sugli ebrei, direi che non ho nulla contro di loro. È solo che ci sono piombati addosso, tra noi tedeschi, troppo in fretta, e non eravamo ancora pronti ad assorbirli».
In pubblico, tuttavia, Wagner diede il suo appoggio a posizioni antisemitiche ancor più estreme: definì «la razza ebraica» come «nemica, sin dalla nascita, dell’intera umanità e di tutto ciò che vi è di nobile in essa». Affermò che «ci stanno umiliando, noi tedeschi, e forse sono io l’ultimo tedesco che sa tenere la schiena dritta davanti al Giudaismo, che già domina ogni cosa».
Come abbiamo osservato nei recenti dibattiti in Europa sull’integrazione, i pregiudizi razzisti, siano essi contro gli ebrei oppure, come accade adesso, contro i musulmani, non sono affatto scomparsi dalla società contemporanea.
Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista, che in veste di giornalista di fama dovette constatare il crescente antisemitismo in Austria e in Francia, agli inizi era totalmente a favore della completa assimilazione degli ebrei. È interessante notare che le parole utilizzate da Herzl non erano in sostanza diverse da quelle di Wagner nel descrivere la situazione degli ebrei in seno alla società tedesca. Nel 1893 Herzl scriveva che per «guarire il loro male» gli ebrei avrebbero dovuto «sbarazzarsi una volta per tutte di quelle loro stranezze che vengono giustamente criticate». Era il caso pertanto di «battezzare i maschietti ebrei» per risparmiar loro ulteriori difficoltà nella vita. «Untertauchen im Volk!»: tuffarsi nella popolazione, era l’appello lanciato alla comunità ebraica. Anche Richard Wagner parlava dell’Untergang, l’immersione: «C’è un solo modo per sfuggire alla maledizione che vi pesa addosso: l’Ebreo errante troverà la sua salvezza - immergendosi!».
Le conclusioni raggiunte da Wagner sul problema ebraico non erano soltanto formalmente simili a quelle di Herzl: sia l’uno che l’altro erano a favore dell’emigrazione degli ebrei tedeschi. Furono i timori di Herzl davanti al serpeggiante antisemitismo europeo a spronarlo verso la fondazione di uno stato ebraico. La sua visione di uno stato ebraico fu influenzata dalla tradizione del liberalismo europeo. Nel romanzo «Altneuland» (1903) Herzl tratteggia quale poteva essere una comunità ebraica stabilita in Palestina, dove i residenti arabi e non ebrei avrebbero goduto dei medesimi diritti politici. In altre parole, Herzl era ben consapevole che vi fossero arabi in Palestina quando lanciò l’idea di uno stato indipendente per gli ebrei europei. Nel 1921, alla dodicesima Conferenza sionista di Karlsbad, Martin Buber ammonì che la politica si sarebbe dovuta occupare della «questione araba»: «Il nostro desiderio di ristabilire il popolo di Israele nel suo antico territorio tuttavia non prelude al conflitto contro altre popolazioni. Nel rivendicare il suo ruolo nella storia mondiale, e innalzando il vessillo del suo destino, il popolo ebraico, che ha rappresentato una minoranza perseguitata in tutti i paesi del mondo per duemila anni, respinge con sdegno i metodi della dominazione nazionalistica, sotto la quale esso stesso tanto a lungo ha sofferto. Non aspiriamo a rimetter piede nella terra di Israele, con la quale abbiamo vincoli storici e spirituali indistruttibili, per opprimere o dominare un altro popolo».
Nella Dichiarazione israeliana di indipendenza, proclamata il 14 maggio 1948, si legge che lo stato di Israele «si dedicherà allo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti. Sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace, rispettando i precetti dei profeti di Israele. Esso garantirà a tutti i suoi cittadini uguaglianza sociale e politica, a prescindere da religione, razza e genere. Assicurerà la libertà religiosa e intellettuale, la libertà di parola, di istruzione e di cultura». La realtà, come tutti ben sappiamo, è assai diversa.
Persino oggi, molti israeliani vedono nel rifiuto dei Palestinesi di riconoscere lo stato di Israele la continuazione dell’antisemitismo europeo pre-bellico. Ma non si tratta di antisemitismo, bensì di riluttanza davanti alla spartizione della Palestina, a quell’epoca, e di ribellione davanti alla negazione di pari diritti oggigiorno — come il diritto a uno stato indipendente — ad avvelenare i rapporti tra i palestinesi e Israele. La Palestina non era un territorio spopolato (come sostiene la propaganda nazionalistica israeliana); anzi, è ben più calzante il commento espresso da due rabbini che vi si recarono in visita per vedere se poteva prestarsi ad ospitare lo stato ebraico: «La fanciulla è bella, ma è già sposata». Il fatto che lo stato di Israele sia stato fondato a spese di un altro popolo resta ancora oggi un argomento tabù nella società israeliana.
Un altro tabù persiste in Israele, e riguarda l’esecuzione delle opere di Wagner. A questo proposito, tengo a ribadire che la notizia dello scandalo causato in Israele dalla mia direzione, con la Staatskapelle Berlin, del Preludio e Morte di Isotta nel 2001, è una favola che gode ancora oggi di grande diffusione, a un decennio di distanza. Il pezzo era stato eseguito come un bis, dopo aver intrattenuto un dibattito con il pubblico per circa quaranta minuti. Avevo annunciato che tutti coloro che volevano lasciare la sala erano liberi di farlo. Sono uscite solo da venti a trenta persone, che si sono rifiutate di ascoltare la musica di Wagner. Il restante pubblico ha applaudito l’orchestra con tale entusiasmo che ne ho ricavato la sensazione di aver fatto qualcosa di costruttivo. Solo il giorno dopo si è sollevato il polverone, quando i politici hanno definito vergognosa la nostra esecuzione, benché nessuno di essi fosse stato presente.
Durante il Terzo Reich, la musica di Wagner veniva eseguita a Tel Aviv dall’Orchestra Sinfonica di Palestina, l’odierna Orchestra Filarmonica di Israele. Poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando si venne a sapere che gli ebrei erano stati spediti alle camere a gas mentre risuonavano le note di Wagner, l’esecuzione delle sue opere fu giustamente proibita per rispetto verso i sopravvissuti e i parenti delle vittime. E questo fu decretato non per l’antisemitismo di Wagner, bensì per l’uso indegno della sua musica che ne avevano fatto i nazisti.
Wagner sarà pur stato il principale modello umano e ideologico per Adolf Hitler, una sorta di «predecessore», secondo quanto scrive Joachim Fest nella sua biografia del dittatore nazista. Hitler lo chiamava «il massimo profeta del popolo tedesco» e prese a prestito la mitologia wagneriana per inglobarla nell’ideologia nazista. Tuttavia, per quanto ripugnante possa apparire l’antisemitismo di Wagner, è assurdo considerarlo responsabile per l’uso e l’abuso della sua musica e delle sue posizioni. Il compositore ebreo Ernest Bloch, tanto per citarne uno, si rifiutò di considerare Wagner patrimonio dei nazisti: «L’inno dei nazisti non è il Preludio dei Maestri Cantori, bensì l’Horst-Wessel-Lied; altro onore non possono reclamare, e non verrà loro riconosciuto».
Chiunque voglia vedere un vergognoso attacco contro gli ebrei nelle opere di Wagner è libero di farlo. Ma questa interpretazione è davvero giustificata? Beckmesser, per esempio, in cui taluni vedono la rappresentazione denigratoria di un ebreo, era uno scrivano del 1500, epoca in cui una posizione simile era interdetta agli ebrei. A mio modo di vedere, se le goffe melodie di Beckmesser assomigliano ai canti della sinagoga, allora si tratta di una parodia dei canti ebraici, e non di un insulto razzista. A questo proposito, qualcuno può anche farne una questione di gusti.
L’intero dibattito su Wagner in Israele si ricollega al fatto che non sono stati ancora fatti passi decisivi verso un’identità ebraica israeliana. I partecipanti al dibattito restano tuttora aggrappati ad associazioni passate, perfettamente comprensibili e giustificate relativamente all’epoca in cui sorsero. È come se volessero ricordarsi, così facendo, del loro stesso giudaismo. E forse è lo stesso atteggiamento che non consente a tanti israeliani di vedere nei palestinesi cittadini con pari diritti.
Quando si continua a sottoscrivere il tabù su Wagner in Israele, ciò significa, per un certo aspetto, che concediamo ancora l’ultima parola a Hitler, riconoscendo cioè che Wagner fu davvero profeta e precursore dell’antisemitismo razzista, e pertanto anch’egli responsabile, sebbene indirettamente, della soluzione finale.
Questo punto di vista non è degno del pubblico ebraico, che dovrebbe piuttosto lasciarsi influenzare dai grandi filosofi ebrei, come Spinoza, Maimonides e Martin Buber, anziché da divieti e dogmi insulsi.
Daniel Barenboim
(traduzione di Rita Baldassarre)