Stefano Agnoli, Corriere della Sera 03/12/2010, 3 dicembre 2010
QUEGLI AFFARI OPACHI SU GAS E PETROLIO DALLA RUSSIA ALL’ITALIA —
Petrolio e gas. E fino a non molto tempo fa un oliato sistema di intermediari. La Russia è il primo produttore mondiale di greggio con 10 milioni di barili al giorno, più dell’Arabia Saudita. Ed è anche il secondo per il gas, dopo gli Stati Uniti, con un quarto delle riserve del pianeta. Può stupire che su questo mare di risorse si concentri l’attenzione di governi, diplomazie, compagnie petrolifere, finanziarie e affaristi? Ovviamente no. I «cables» dell’ex ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, che nel 2008 riferisce le confidenze del suo collega georgiano («Putin ha promesso a Berlusconi una percentuale sui profitti da ogni gasdotto sviluppato da Gazprom insieme con l’Eni») fanno il paio con quelli inviati da Mosca il 24 novembre dello stesso anno, a firma del suo collega John Beyrle. In due paginette Beyrle descrive come «opaco» il business della vendita del petrolio russo all’estero. Un giro d’affari del quale sarebbero beneficiarie aziende «politicamente introdotte» come ad esempio la Gunvor. Una società svizzera, riporta Beyrle, che «si dice» sia una delle fonti della ricchezza nascosta di Putin. Di proprietà di Gennady Timchenko, che «si dice» sia stato un collega dell’attuale primo ministro russo ai tempi del Kgb. Spazzatura di seconda mano, già letta e smentita sui giornali di mezzo mondo e ricucinata ad uso di poco informate alte sfere a Washington? Può essere, se non fosse per una piccola ma fondamentale differenza: l’imprimatur (ai massimi livelli) delle rappresentanze diplomatiche a stelle e strisce. Che in altre note «confidenziali» scrivono senza mezzi termini di aver raccolto storie poco chiare. Come, ad esempio, che proprio la chiacchierata Gunvor guadagna un dollaro per ogni barile di petrolio venduto, contro il margine da 5 a 20 centesimi strappato da un trader normale. Una cresta, insomma, grazie ai suoi «buoni rapporti». Uno «sfriso», come i petrolieri definiscono il frutto dell’intermediazione.
Nel gas accade come nel petrolio? Svanita la cortina post-sovietica, gli esempi di sistemi «opachi» di vendita del gas da parte di Gazprom si sprecano. Come durante la crisi ucraina del 2005-06, un caso che si è trascinato fino a quando l’invisa (al Cremlino) Yulia Timoshenko è sparita di scena. Un «cable» del 30 ottobre 2008 dall’ambasciata di Kiev ricorda che Gazprom, invece di vendere il metano direttamente all’Ucraina lo cede a un intermediario, RosUkrEnergo, una società al 50% tra Gazprom e due oligarchi ucraini (Dmitri Firtash e Ivan Fursin), che a sua volta lo rivende a Kiev. Perché Gazprom sarebbe dovuta entrare in affari con loro?
Anche nel caso Centrex-Mentasti, sempre del 2005, era previsto un contorto meccanismo di cessione del prezioso gas, questa volta in Italia. L’austriaca Centrex, creata da Gazprom e nella quale aveva una partecipazione Bruno Mentasti (imprenditore socio di Silvio Berlusconi ai tempi di Telepiù), avrebbe dovuto ricevere tre miliardi di metri cubi di gas russo dall’Eni di Vittorio Mincato per rivenderli in Europa. Guadagnandoci ovviamente, e fin qui la storia è nota. Ma di chi era la Centrex? Sulla carta risultava controllata da un Centrex Group di Cipro, a sua volta controllato da un trust di Vaduz, la Idf. I nomi dei beneficiari della holding del principato alpino, liquidata definitivamente a marzo 2010, sono rimasti sconosciuti. C’erano degli italiani, oltre ai russi? Difficile dirlo. Solo lo scorso anno è emerso che già nel 2006 l’80% della Idf era stato venduto a una banca di Mosca, la Russische Kommerzial Bank. Ora il proprietario è Gazprombank, che malgrado il nome non ambiguo ha il colosso energetico di Mosca solo come socio di minoranza. A guidare la «nuova» Centrex è l’italiano Massimo Nicolazzi, ex Eni e ex Lukoil, che assicura di non vendere neppure un metro cubo di gas in Italia.
Dopo l’Eni, a «intermediare» gas russo sul territorio nazionale risultano ad oggi solo due società: Premium Gas, una joint venture tra Gazprom Germania da una parte e la lombarda A2A e Iren dall’altra. E Promgas, i cui azionisti sono Eni e la stessa Gazprom. Creata ai tempi dell’ex premier russo Viktor Chernomyrdin, il suo metano lo gira alla franco-italiana Edison.
Nei due anni trascorsi dal 2008, e dai «cables» delle ambasciate Usa, le cose sono un po’ cambiate. La corsa agli affari con Gazprom, e al metano russo, si è attenuata. Allora il barile era a 147 dollari, e il gas lo seguiva a ruota. Con gli attuali prezzi, invece, i clienti europei puntano a sganciarsi dai costosi contratti stipulati con i russi. In attesa che il vento cambi un’altra volta.
Stefano Agnoli