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 2010  dicembre 09 Giovedì calendario

INTERVISTA A RICCARDO MUTI

Il bambino a Napoli e cresciuto a Molfetta ha il mondo ai suoi piedi. I grattacieli d’America hanno scritto il suo nome con le luci e adesso, a suo agio in un pullover, il ragazzino diventato maestro, ovvero Riccardo Muti, indica al visitatore la penombra del foyer vuoto del Teatro dell’Opera di Roma: «Pare di vederli gli antichi ospiti, ci sono tutti i convenuti in orbace, in divisa, in camicia nera».
L’edificio è un tipico esempio di razionalismo novecentesco. Non ha certo la maestosa presenza del San Carlo di Napoli, «che è il più bei teatro del mondo», dichiara il maestro, ma è una macchina pronta a macinare applausi ed emozioni. Intorno a Muti e al Moise et Pharaon (opera di Gioachino Rossini, sei rappresentazioni dal 2 al 12 dicembre) brulica l’operosa organizzazione di un fatto d’arte di assoluta grandezza. Incrociamo fra le sale, non a caso, il capo del cerimoniale del Quirinale.
Ogni direzione di Riccardo Muti è un fatto d’arte che parla alla nostra identità nazionale?
Alla Patria, prego. Preferisco questo concetto. Amo questa parola. E non ho mai avuto vergogna a preferire la definizione Patria a tutte le altre, più annacquate. Lo faccio da sempre e non solo oggi dove ormai si fa a gara a mettere il tricolore dappertutto. Anche dove non è opportuno.
Dopo un colloquio in una saletta il maestro mi ha fatto entrare nel suo camerino. L’intervista è già finita ma, con la bonomia e la semplicità di quel bimbo nato a Napoli e cresciuto a Molfetta, il maestro regala un aneddoto pescato fra i ricordi spiritosi del pur sempre patriota Muti: «Quella volta che diressi Fratelli d’Italia a Beirut, quando il demone del refuso costrinse i coristi libanesi a sbagliare il verso "dov’è la vittoria? Le porga la chioma" e a cantare la cogli-oma. Incredibile. Anche perché c’era una sillaba in più. Mi procurai la stampata e la recapitai all’allora presidente, Carlo Azeglio Ciampi». Il colloquio, dunque.
Ho letto il vostro libro, «Prima la musica, poi le parole».
Sono contento. Io ancora non ho avuto modo. L’ho dettato, ma non l’ho ancora letto e perciò non ricordo cosa ci sia e cos’altro abbia poi dimenticato.
Ci sono degli incontri con personaggi straordinari, con Carmelo Bene per esempio.
Ci univa il nosco sangue meridionale E ci univa la passione comune per la musica. Mi affascinava il suo ideale d’arte, la sua vicenda sonora: la «phoné». Avvertivo in lui la necessità di un canto che variasse, come i suoi timbri, dai colori diversi. Due potevano essere i nostri progetti, il Trovatore o il Macbeth, ma furono desideri impossibili. I tempi di preparazione, comprensibili per un genio come lui, non si adattano alle masse enormi che un teatro d’opera muove. Ci voleva una disponibilità di mesi che i cantanti, fra i quali pochi con qualità d’attore, non potevano dare. Non ci fu possibile per eccesso di genio. Il suo.
Un altro personaggio nella vostra autobiografia è Nino Rota.
Senza di lui non sarei ciò che adesso sono. Individuò delle qualità in me, quelle della mia vita professionale. Fu mio esaminatore in commissione quando mi presentai da privatista. Era un uomo impastato nella musica.
Un amico che ne capisce e ha autorità nella storia della musica, Paolo Isotta, mi ha detto che voi, maestro, siete il più grande tra i direttori d’orchestra.
Siete amico di Paolo Isotta?
Sì. Genio italico di ceppo meridionale, l’Isotta. Avrà ragione. Non capita a tutti, com’è successo a voi, maestro, di vedere specchiare il proprio nome su un lago con le luci dei grattacieli. In Italia è lo stesso?
Non si tratta di occupare una posizione. Sul podio il pubblico di tutto il mondo applaude la musica, non me. E non si tratta di dispensare intrattenimento, ma cultura. Non sono uno che piange sulla propria sorte, sono però convinto che a furia di ripetere cultura, cultura, cultura questa parola, appunto, si svuoti di significato. Stiamo perdendo la nostra identità. È come se avessimo tagliato...
I fondi del ministero?
... le radici! Non serve più mettere pezze in un sacco pieno di buchi. Ed è un pericolo in questo momento in cui tutte le storie del mondo, con l’immigrazione, portano all’incrocio, anzi, per dirla con il linguaggio della musica, a un contrappunto di linee diverse. E il nostro ceppo deve poter fare germogliare il futuro. Questi teatri, insomma, non sono popolati da poche migliala di persone che rompono le scatole al governo ma da artisti che, se pure hanno il dovere di pensare anche a dare da mangiare ai propri figli, sono gli stessi che poi danno vigore a uno degli elementi fondamentali della nostra società. Loro, infatti, non fabbricano eventi ma cultura.
Parola a rischio di svuotamento, la cultura.
Abbiamo il dovere di far rifiorire il nostro ceppo, la nostra Patria, di fronte al mondo che ci guarda, perché siamo la terra di Dante, Leonardo e Michelangelo. Noi non siamo un museo. Dobbiamo tutelare la bellezza. Mi rendo conto che ci sia stato un collasso, tutta una civiltà che se n’è andata via...
Voi, maestro, avete messo le partiture sul web: un modo di reagire al collasso di questa civiltà?
Ma io non so neppure come s’accende un computer. Il ragionamento è un altro: l’Italia è ridotta a essere niente. La musica aveva dato una cultura al Sud. Si deve pure dare merito al lavoro dignitoso e nobile delle bande musicali in ogni paese e poi le «orchestre», ossia i «chiostri» dove si allocavano i bandisti per fare musica. Quindici anni fa ero andato a Terlizzi per la festa del santo patrono, dove ebbi modo di godermi la musica in piazza. Unito a uno sparuto gruppo di paesani intorno ai bandisti stavo anch’io, ad ascoltare. E quando davanti al maestro che si adoperava con grande foga uno degli astanti diceva: ma chi glielo fa fare?, ecco, ho capito: il collasso di tutta una civiltà.
I ragazzi in gita scolastica non portano più con loro la chitarra per suonare e cantare tutti insieme
Vero. Ognuno chiuso in se stesso, ognuno con una cuffia, senza sentire con la musica il suono della vita, è vero: l’uomo con la cuffia rinuncia alla totalità. In un film di Jaime de Arminàn, El Nido, c’è una scena bellissima. Un uomo va a cavallo e s’immedesima a tal punto nella natura intorno a lui da dirigerne, in groppa al destriero, miti i suoni. Un mondo bellissimo quello dove ogni albero, ogni orizzonte e ogni sentiero sembrano far scaturire il duetto tra Adamo ed Eva di Haydn. Come il mondo del mio Sud.
Ma il Sud della bellezza è anche quello della monnezza.
Il Sud ha dato al mondo braccia, intelligenza e sudore. Non sono del Sud i Leonardo Sciascia, i Dudù La Capita? Ho sempre avuto la sensazione che il Sud continui a pagare pegno al monte dello sfruttamento continuo. E diciamolo che gli enti lirici e le istituzioni culturali del Nord riescono a pareggiare i conti perché almeno, lì, le banche intervengono ad aiutare i teatri e le orchestre. Queste stesse banche non lo fanno al Sud, lasciano morire la musica e l’arte. E poi, è vero o no che le industrie del Nord portano i loro rifiuti tossici al Sud?
Certo che è vero, lo spiega bene Roberto Saviano. Evidentemente al Sud c’è qualcuno che si fa complice del Nord.
Ma perché Saviano si mette tutti quegli anelli?
Un altro amico, Giovanni, uno di Mondragone che lavora in Mondadori, dice che se li mette perché è «II signore degli anelli».
Certo che al Sud si trova sempre uno che la sa interpretare la realtà. È da quando sono nato che sento dire di risolvere il problema del Mezzogiorno e adesso che sono nell’età matura non se ne viene a capo. Mi sa che ha proprio ragione Leo Longanesi: «Per quel che mi riguarda il problema del Mezzogiorno io l’ho risolto: mangio all’una».