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 2010  dicembre 01 Mercoledì calendario

LA FRONTIERA: NON SI DISSODA LA TERRA E SI RISPARMIA ANIDRIDE CARBONICA


Il mondo sarà salvato dai lombrichi. Questa, in estrema sintesi, è la tesi su cui si basa la rivoluzione – ancora lenta e silenziosa – dell’agricoltura blu. Il nome richiama il colore dell’acqua, perché le tecniche di agricoltura conservativa – così è conosciuta dagli agronomi – aumentano vistosamente la capacità dei terreni di trattenere risorse idriche e nutrienti; ma potrebbe riferirsi anche al colore del cielo, in quanto la semina su sodo (la non lavorazione del terreno investito con le coltivazioni erbacee allo scopo di mantenere una fertilità fisica paragonabile a quella dei terreni naturali), che rappresenta il traguardo per chi sceglie questa metodologia, permette una riduzione delle emissioni di anidride carbonica provocate dalle lavorazioni in campo (3.000 chili ad ettaro) e il sequestro di grandi quantità di carbonio nel suolo, sotto forma organica, al punto che si potrebbero già commercializzare i crediti di carbonio derivanti dall’agricoltura, esattamente come si fa per l’industria. Terreni più fertili e resistenti ai cambiamenti climatici, una tonnellata per ettaro in più di carbonio ’organicato’ ogni anno, abbattimento dei costi aziendali, difesa della biodiversità, riduzione dell’erosione del suolo fino al 90% e una minore contaminazione delle acque superficiali come conseguenza di un utilizzo più contenuto dell’agrochimica: per ottenere tutto ciò che promette la letteratura scientifica a chi opta per l’agricoltura conservativa sembra che basti buttare l’aratro, eppure non è così. «Questo sistema di produzione, che è già applicato su 100 milioni di ettari nel mondo – spiega Michele Pisante, ordinario di agronomia dell’Università di Teramo e referente scientifico dell’Associazione italiana per la gestione agronomica e conservativa del suolo (Agiacos) – manda l’aratro in pensione, perché si rinuncia a dissodare e rimescolare il terreno prima della semina. Il 30% del terreno resta coperto dai residui delle coltivazioni precedenti e meno si lavora il suolo, evitando di bruciare le stoppie o rivoltarle nella terra, più nutrienti e carbonio restano imprigionati nel terreno, con un vantaggio in termini di sostenibilità ma anche di fertilità e di bilancio, perché si riducono le applicazioni di diserbanti e concimi di sintesi e si contraggono i costi di personale e contoterzisti. Ovviamente, bisogna seguire scrupolosamente determinate regole e nei primi anni si determina comunque un calo di produttività, che può essere compensato dagli aiuti comunitari».
Per il momento, avviene solo in Veneto, dove la Regione, attraverso il piano di sviluppo rurale, riconosce 400 euro ad ettaro agli agricoltori blu e 245 per le colture di copertura. Il sistema ’blu’ consiste nel trattare la superficie solo alcuni giorni prima della semina con un disseccante; se proprio si deve arare il terreno, perchè è troppo compatto, si usano attrezzi che non penetrino oltre i 30 centimetri di profondità e che, grazie alla particolare forma e inclinazione, non rimescolano gli strati del terreno. Dopo il raccolto, si lasciano i residui colturali in superficie oppure si seminano, sempre su sodo, altre colture dette di copertura. L’obiettivo è sempre quello di conservare nel terreno i residui erbacei - che riescono a trattenere una quantità d’acqua pari a venti volte il loro peso - e farvi prosperare la fauna, in particolare i lombrichi, i quali lavorano meglio di un aratro, perché insieme creano quei micropori che favoriscono l’aerazione e conservano l’umidità nel terreno.
Non tutti, però, possono diventare agricoltori blu. Serve una adeguata formazione, possibilmente permanente, perchè le tecnologie mutano di continuo; inoltre, bisogna rispettare meticolosamente tempi e parametri, ma soprattutto occorrono delle attrezzature dedicate: le seminatrici su sodo vengono impiegate solo con le colture erbacee e in particolare a seminativi come la soia, il mais e il frumento, sempre e comunque in rotazione.
Esistono soluzioni anche per le coltivazioni arboree come i vigneti, i frutteti e gli oliveti, ma il core business dell’agricoltura blu restano soia e cereali e lo dimostrano gli investimenti dell’industria agromeccanica: ad esempio, per scacciare l’incubo peggiore dell’agricoltore blu – il compattamento del terreno – sono stati creati per le mietitrebbie pneumatici a larga sezione, così da alleviare il peso delle macchine mentre lavorano sul campo, e decompattatori che, dopo il raccolto, ripristinano la porosità senza danneggiare il materiale organico presente nel suolo. L’agricoltura blu si sposa infine con quella di precisione, che sfrutta i sistemi satellitari per far lavorare con accuratezza millimetrica barre da diserbo e spandiconcime, variando la distribuzione del prodotto chimico secondo le caratteristiche della pianta. «In una prima fase, tuttavia, anche con questi strumenti – ammette Pisante – le infestanti possono aumentare e le rese diminuire, ma dopo cinque anni il sistema si stabilizza, si possono limitare i contributi chimici, mentre il reddito torna a crescere. Del resto, non è un caso che l’agricoltura conservativa si diffonda anche quando non è incentivata». Come nelle Marche, dove occupa già trentamila ettari.


«VANTAGGI ECONOMICI ED ECOLOGICI. SVOLTA DI RILIEVO» (INTERVISTA A LIVIO FERRUZZI) -

Gli italiani fanno scuola nel mondo dell’agricoltura conservativa. Livio Ferruz­zi, quand’era manager del gruppo Ferruzzi, è stato il padre di Open Grounds Farm: 18.000 ettari di pa­lude e terreno vergine nel North Carolina bonificati e convertiti a soia, mais e grano. Oggi collabora nel­la gestione dell’immensa tenuta di Las Cabezas, in Argentina, dove si coltiva soia senza aratro, senza er­pice e senza neanche irri­gare.

In Italia si parla molto di a­gricoltura blu ma se ne fa ancora poca. Che cosa lo impedisce?

Questione di mentalità. Re­stiamo l’ultimo posto al mondo che considera l’a­ratura una fase imprescin­dibile del lavoro agricolo. Diciamo la verità, non si vuole investire: siamo dei buoni ricercatori agrari, ma davanti all’innovazione siamo restii a scommette­re. Di fronte ai risultati de­gli ultimi decenni, peraltro, anche la scusa ufficiale – che cioè il suolo dei nostri campi non sia adatto – non regge.

La semina su sodo convie­ne più all’ambiente o all’a­gricoltore?

Conviene ad entrambi. I vantaggi ecologici sono no­ti e dimostrati. Quanto al bilancio aziendale le rese sono in genere superiori con l’agricoltura conserva­tiva. L’exploit della soia ar­gentina non sarebbe stato possibile senza questa me­todologia e, naturalmente, senza gli Ogm. Se nel sud­est degli Usa, dove ci tro­viamo noi e dove i terreni sono sciolti, si dovesse uti­lizzare la tecnica tradizio­nale, aumenterebbe l’in­quinamento da fosfati nel terreno, oltre all’erosione. Senza contare che i nostri costi aziendali sono infe­riori a quelli italiani e le no­stre rese sicuramente mag­giori.

La scelta è condizionata dalle dimensioni aziendali?

No. Semmai, è condiziona­ta dai contratti dei conto­terzisti: poiché le dimen­sioni delle aziende agrico­le italiane sono media­mente basse, se un opera­tore agromeccanico deve rinnovare il suo parco mac­chine, introducendo i mez­zi per la semina su sodo, per poche centinaia di et­tari, quanti sono quelli dei suoi clienti, ovviamente tende a non farlo e il pro­cesso di espansione dell’a­gricoltura conservativa ral­lenta.

Il mercato dei mezzi agri­coli è in grado di sostene­re quest’espansione?

Quando iniziammo noi in Argentina c’erano poche macchine adatte, ma era il 1988 e comunque le im­portammo dagli Usa. Oggi ci sono tutti i mezzi neces­sari e il costo delle attrez­zature per la semina su so­do è all’incirca uguale a quello delle macchine de­stinate alle lavorazioni tra­dizionali. Insomma, è solo una questione di mentalità.

Siamo sicuri che alla fine la scelta dell’agricoltura blu paghi davvero, in ter­mini di rese?

Quelle non sono inferiori, ma in alcuni casi sono su­periori alla tecnica tradi­zionale, come dimostra un recente studio dell’univer­sità dello Iowa sulle produ­zioni di soia con aratro e su sodo. Naturalmente, ci so­no prodotti più e meno a­datti. L’agricoltura conser­vativa si espande soprat­tutto nella cerealicoltura e nella soia, si stanno però studiando soluzioni per applicarla anche alla bar­babietola.

Mai avuto problemi con questa tecnica?

Quando compaiono, li ri­solviamo. Abbiamo avuto un calo di rese dopo vent’anni, per effetto del compattamento del terre­no, ma abbiamo introdot­to una nuova strumenta­zione che penetra nel suo­lo per trenta centimetri e lo decompatta senza rovina­re lo strato superficiale. U­sato ogni quattro o cinque anni, risolve.