Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 02 Giovedì calendario

ANCHE LA LINGUA HA FATTO LA STORIA D’ITALIA

Lo Stato italiano ha 150 anni, la lingua italiana 7 secoli. Ma la Repubblica italiana ha mai saputo imbastire una politica linguistica? A parte qualche legge che prescrive l’italiano nell’etichettatura del cacao o nei fogli informativi dei giocattoli, la risposta è no. O meglio, una legge ci sarebbe: la n. 4 del 1974, che ha vietato a tutti gli uffici pubblici di usare le parole lebbra, lebbroso, lebbrosario. Qui però non s’affaccia l’esigenza di proteggere la lingua italiana, ma casomai l’opposto, perché vi si prescrive che questi termini vengano sostituiti da «Morbo di Hansen» o da «hanseniano». Dunque una legge all’insegna del politicamente corretto, anche a costo di suonare incomprensibile per chi non abbia in tasca un paio di lauree in medicina: difatti negli usi collettivi sentirsi dare del lebbroso significa ricevere un insulto, mentre se apostrofi qualcuno chiamandolo hanseniano otterrai in cambio uno sguardo stralunato.

In compenso c’è un fiume normativo che si riversa sulle minoranze linguistiche, dividendole però in figli e figliastri (il gruppo tirolese di lingua tedesca è fra le minoranze più protette al mondo). C’è anche una legge generale su tali minoranze (la n. 482 del 1999), che le elenca una per una: quelle albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate, nonché le popolazioni che parlano il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano, il sardo. Tuttavia da quest’elenco mancano gli zingari, mancano varie parlate regionali al di là del sardo e del friulano, mancano le nuove minoranze forgiate dall’immigrazione. Insomma la politica linguistica dell’Italia repubblicana è un po’ come un ascensore: viziata da una sorta d’imperialismo normativo nei confronti delle etnie più deboli, arrendevole con le minoranze più ricche e più coese, pressoché silente rispetto alla tutela della nostra lingua nazionale.

Un solo esempio: gli immigrati. Qui le preoccupazioni linguistiche si limitano a un unico episodio, perché non ve n’era quasi traccia né nella legge Martelli del 1990, né nella Turco-Napolitano del 1998, né nella Bossi-Fini del 2002. Ma il punto di svolta sta nel primo «pacchetto sicurezza» incartato dal ministro Maroni, e più precisamente nella legge n. 94 del 2009, quella che ha introdotto il reato d’immigrazione clandestina. Anche se in realtà è clandestina questa stessa novità legislativa, dato che si nasconde nell’art. 1, comma 22, lettera i), che a sua volta modifica l’art. 9 del d.lgs. 286/1998, aggiungendovi un comma 2-bis. Un insulto alla matematica, se non proprio all’italiano. Eppure questo comma al cubo esige dagli immigrati una prova che molti cittadini non supererebbero: un test di conoscenza della lingua italiana, per ottenere il permesso di soggiorno.

No, non è questa l’idea che ci avevano consegnato i nostri padri fondatori. Se c’è uno spazio per la politica linguistica nella Carta del 1947, questo spazio va colmato rispettando la libertà di lingua, che a sua volta è figlia della libertà di parola. E avendo cura inoltre della nostra lingua nazionale, ma senza il bastone usato dal fascismo, non foss’altro perché in ogni manifestazione della vita culturale c’è una scintilla che non può essere pianificata, o che altrimenti muore. Come diceva Adorno, quando le feste di paese vengono messe in calendario una dopo l’altra per agevolare i viaggi culturali, finiscono per perdere la loro qualità di festa, che si regge sull’unicità del rito, sulla sua irripetibilità. Le feste vanno celebrate come cadono, la lingua va accettata per com’è, per come spontaneamente evolve, anche quando assume sonorità estranee alla nostra giovinezza. Ma la lingua è al tempo stesso un bene culturale, è insieme la memoria dei padri e l’orizzonte dei figli, ed è disgraziata la Repubblica che non abbia cura del proprio patrimonio culturale.