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 2010  dicembre 02 Giovedì calendario

E LA CINA TEME DI PERDERE UN MODELLO CULTURALE

Come sarà il futuro della Cina? Come finirà il processo di modernizzazione, cioè di occidentalizzazione del Paese? Cosa c’è dietro l’angolo per Pechino, e quindi per il mondo che si trova a fronteggiare la corsa di questo mastodontico elefante che va più veloce più di una Ferrari? Atutte queste domande la Cina per prima, come il resto del mondo, non ha chiare risposte. Ma da un po’ di anni Pechino queste risposte cominciava a scavarle tra le macerie di Pompei. A gruppi di 20, cinque volte all’anno, da sei anni, delegazioni della Scuola centrale del partito, l’istituto di massima formazione e selezione degli alti quadri dirigenti del Paese, andavano, sommessi, in pellegrinaggio tra le rovine di Pompei.

I cinesi, senza dei e con poche fedi, credono che per capire il loro destino e il Dna del loro quasi-faro politico e culturale, l’America, bisogna prima capire la storia antica. E circa il 90% dei 3 mila anni di storia dell’Occidente, dai greci di Pitagora all’illuminismo di Beccaria, è in Italia.

Pompei in questo è il passato che risorge dalla terra e che parla non solo al presente, ma anche al futuro, perché le macerie strappate dalla sepoltura della lava restano per le generazioni future. Ciò non certo solo per l’Italia ma per il mondo che oggi insegue il sogno della velocità e del cambiamento di quell’America fondata in inglese ma con un motto latino «e pluribus unum» sotto l’insegna dell’aquila imperiale romana.

O forse questo è davvero il passato-passato perché anche le rovine rinate man mano, quasi per pitagorica metempsicosi, dal 1700 grazie agli scavi del proto-archeologo tedesco Johann Winkelmann stanno risparendo nella terra.

Il terzo muro delle rovine di Pompei che per incuria, sciocchezza o altro si frantuma e si sbriciola, tornando terra come la terra che tre secoli fa la copriva, non è solo un piccolo o grande scandalo nazionale, è un segno. Visto da fuori, da tanto lontano come in Cina, è il simbolo di un’Italia che si sbriciola, si sfarina senza una colpa chiara e dolosa.

Nessuno ha voluto distruggere le rovine di Pompei sbattendoci contro una ruspa, facendole saltare con la dinamite o strappando le pietre ad una ad una con un piccone.

Nessuno è così cattivo, nessuno ha un piano. È solo successo tutto per assenza di piani, di una visione generale, perché nella costante guerra delle mille piccole tattiche di cortile si è persa la strategia. Qual è il senso di Pompei per il mondo, prima ancora che per l’Italia? Che diritto ha l’Italia di avere un monumento che le porta ammirazione, attenzione, e denaro contante con il turismo e con i consumi indotti, se poi lo fa crollare?

La Cina che sta appena riprendendosi dalla frenesia della distruzione a tappeto dei suoi centri storici, Pechino che si era proposta di studiare la tradizione della conservazione dei monumenti italiana, oggi è sgomenta.

C’è poco da studiare, se cade Pompei cadono la storia e l’identità dell’Italia, il senso della sua unità politica e culturale, il suo ruolo di culla della civiltà occidentale in Europa e nel mondo. Se fallisce il compito di conservare i monumenti l’Italia ridiventa un’espressione geografica come diceva Metternich. Infatti quelli che rimpiangono l’impero austro-ungarico puntano il dito contro i «sudisti». In questo c’è tutta la voglia di secessione, il ritorno all’immagine del Meridione arabo-borbonico contro un Nord attaccato al centro Europa germanico.

Sicuramente, visto dall’Italia che è a pochi passi dalle rovine, tutto questo sembra troppo, forse solo un’esagerazione provocatoria. Ma se la distanza fa perdere i dettagli fa guadagnare in prospettiva, e la storia è fatta di segni, momenti che indicano svolte. Così forse, secondo la Cina, da ieri sotto le nuove rovine di Pompei è crollata l’Italia. All’Italia oggi provare il contrario.