Massimo Gaggi, Corriere della Sera 02/12/2010, 2 dicembre 2010
GLI USA SCOPRONO L’AUSTERITY. ETA’ PENSIONABILE A 69 ANNI
Quattromila miliardi di dollari di tagli di spesa e maggiori entrate fiscali nei prossimi dieci anni per bloccare l’esplosione del debito pubblico Usa e riportarlo al 60% del Pil entro il 2023. Il piano pubblicato ieri (prima ancora di voltarlo) dalla Commissione «bipartisan» incaricata da Obama di proporre una ricetta antideficit efficace e percorribile, non verrà di certo recepito per intero e tradotto in legge dal Congresso.
I primi a saperlo sono i due copresidenti, il democratico Erskine Bowles e il repubblicano Alan Simpson che, presentando questo documento di 59 pagine, si sono detti consapevoli che da domani un’infinità di «lobby», categorie e gruppi di interesse toccati dalle misure proposte, cercheranno di bloccare tutto.
Eppure questo Rapporto sulla Responsabilità Fiscale viene già considerato come uno spartiacque politico, indipendentemente da come voteranno venerdì i 18 commissari. Per obbligare il Congresso a recepire le misure e a voltarle servirebbero 14 «sì», ma si sa già che sei dei membri dell’ organismo non sono disposti a sottoscriverne le conclusioni. Tutti, però, concordano sull’analisi iniziale sull’entità e la gravità del fenomeno che deve essere affrontato. E’ per questo che il rapporto assume fin dal suo titolo - «Il momento della verità» - il valore di un documento storico, di svolta. Da domani nessuno potrà continuare a parlare - come è stato fatto tante volte anche nella recente campagna elettorale - del contenimento del deficit pubblico come di un problema non urgente o che può essere affrontato con misure limitate.
«Non so quanti voti avremo» ha detto ieri il democratico Bowles, «ma so di certo che da oggi risulta evidente a tutti che il problema è reale, grave e non rinviabile. Che tutte le soluzioni possibile sono dolorose: non abbiamo davanti scelte facili». Prima erano singoli economisti a sostenerlo. Oggi lo ammette un organismo politico nel quale siedono parlamentari dei due schieramenti, compresi alcuni degli uomini-chiave del partito repubblicano sui conti pubblici.
A impressionare non sono tanto le singole misure quanto la massa complessiva di cose che andrebbero fatte per rimettere in ordine la «casa fiscale» degli americani: drastica riduzione delle spese militari, innalzamento dell’età pensionabile a 69 anni (l’ultimo gradino nel 2075), riduzione del 10% del numero di dipendenti federali (senza blocchi del «turn over» ma rimpiazzando, d’ora in poi, solo due impiegati pubblici su tre che escono dai ranghi). E poi, tagli radicali delle spese discrezionali del Congresso, un forte contenimento della erogazioni per la sanità pubblica per gli anziani (Medicare) e un aumento del prelievo fiscale (1.700 dollari l’anno in più per il contribuente medio) come risultante della cancellazione di un gran numero di detrazioni e deduzioni fiscali e di un contenimento delle aliquote fiscali sul reddito (quella federale massima non dovrebbe superare il 29%).
Oggi la spesa federale ha raggiunto il 24% del Pil (il livello più elevato dalla Seconda Guerra mondiale) mentre le entrate fiscali sono scese al 15% del reddito nazionale: un livello così basso era stato toccato solo nel 1950. Continuando così, scrivono i commissari, entro 10-15 anni gli Usa si troveranno nelle condizioni della Grecia o dell’Irlanda. Per riequilibrare la situazione le spese dovranno scendere al 22% del Pil e le entrate salire al 21.
Un piano che infrange il «tabù» antitasse dei repubblicani che hanno promesso agli elettori «Stato minimo» e pochi tributi (anche se nel piano le entrate salgono riducendo le esenzioni, non con nuovi tributi). Nonostante ciò, le reazioni più dure, per ora, non vengono dai conservatori ma dalla sinistra progressista che non accetta tagli di spesa così drastici: sostiene che sono socialmente insostenibili e rischiano di trascinare il Paese in una fase prolungata di stagnazione-recessione.
Massimo Gaggi