Roberta De Monticelli, il Fatto Quotidiano 2/12/2010, 2 dicembre 2010
PERCHÉ IL GIORNALE MI ATTACCA - C’è
un diffuso equivoco, insieme profondo e interessato, insieme filosofico e morale, di cui è un esempio l’editoriale di Marcello Veneziani, “Se chi vota è trattato da criminale” (Il Giornale 25/11/2010), che ringrazio per aver dedicato al mio saggio su La questione morale una cospicua riserva delle sue batterie d’assalto, mettendomi fra l’altro nella più che onorevole compagnia di Barbara Spinelli. È la confusione, o l’interessata identificazione, di radicalità etica e radicalismo politico. Vengo subito all’accusa. Io avrei “criminalizzato” gli elettori del centrodestra, cioè li avrei giudicati “immorali” e lo avrei fatto sulla base della mia inimicizia politica nei loro confronti (anzi della mia mente oscurata dall’odio). Vale a dire: non ci sono ragioni se non di parte. L’etica è politica, e la politica è lotta. E l’equivoco dov’è? Chiunque prenda posizione in materia morale è parziale, e dunque a priori semi-cieco e arbitrario, nel migliore dei casi da assoggettare subito a par condicio: “Sentiamo l’altra campana”. Si esclude che si possa agire o parlare, in materia morale, per altre ragioni che l’interesse di parte, o addirittura l’auto-interesse, e si seppellisce l’atto o il detto che aspirano ad essere adempimento del proprio dovere, o richiamo al dovere di ognuno, sotto l’accusa di estremismo politico. È già successo a tanti. Anche a me.
MA UNA QUESTIONE morale c’è o non c’è in questo Paese? Estrarre tasse significa “mettere le mani nelle tasche degli italiani”, cioè rubare. Una protesta morale è “moralismo autoreferenziale”, ogni denuncia dell’ingiustizia è giustizialismo, le bestemmie dei potenti vanno contestualizzate, le barzellette oscene e i segni di corna sono nostra carta di presentazione all’estero, i giornalisti radiati dall’ordine per tradimento della professione diventano “onorevoli”, della civiltà giuridica post-tribale si fa strage con la frase “padroni a casa nostra”, le leggi si fanno in funzione dei propri interessi privati o penali, eccetera. Sostenere e riprodurre una classe politica che si concede tutto questo non è indifferenza o ignoranza morale? E se lo è, da dove viene? La mia tesi è che viene da lontano, ma che si riproduce oggi a causa di uno scetticismo etico, radicato nel pensiero di tutto il Novecento, che priva la nostra esperienza morale della sua serietà, cioè della sua pur fallibile apertura al vero, e alimenta l’equivoco. Un aspetto di questo l’abbiamo già visto, è la riduzione dell’etica a parzialità politica. L’altro è il terrore dell’idea stessa che la politica e il diritto abbiano a che fare con l’etica: e fa vedere l’ombra illiberale dello stato etico perfino nel-l’idea che si insegni educazione civica a scuola (lo ha sostenuto Galli Della Loggia). I nostri cosiddetti liberali preferiscono di gran lunga, come risorsa normativa, la religione alla coscienza morale autonoma degli individui adulti e responsabili. Insieme, i due volti dell’equivoco ci impediscono di vedere due cose, che sono anche le due tesi centrali del mio saggio. Primo, che la nostra esperienza morale è una cosa seria perché è fondamentalmente aperta al vero (e solo per questo anche fallibile e correggibile); che il dolore provocato dall’ingiustizia nelle sue varie forme, dalla sopraffazione alla viltà, dall’omertà al servilismo, va trattato esattamente come la vista dei nostri occhi: verificare mille volte se non si hanno le traveggole, sottoporre il proprio sentire in ogni istante al filtro della critica altrui e propria – ma infine confessare l’evidenza, sapendo che ignorarla non è diverso dal parteciparvi.
SECONDO , che la modernità illuministica consiste appunto nel cercare la fondazione delle norme nella verifica, costantemente rinnovata, delle coscienze, e non nella tradizione, nel-l’autorità religiosa o nella forza. Ne segue che la democrazia costituzionale, con i suoi delicati meccanismi – la divisione dei poteri, la tutela delle minoranze, il funzionamento della giustizia penale e civile, l’accesso all’istruzione, la libertà di informazione e di espressione – e la maturità morale delle persone, la loro decenza civile costituiscono un circolo, vizioso o virtuoso a seconda della direzione in cui gira. Nessuna democrazia può sopravvivere senza una diffusa capacità di rinnovamento morale continuo delle persone, da un lato; ma non c’è altro luogo che possa garantire a ciascuno l’accesso alla maturità morale o all’età adulta, all’assunzione personale di responsabilità e al rigetto della logica di consorteria , che lo spazio delle ragioni e l’eguale opportunità di chance offerti da una democrazia funzionante. Ecco perché oggi la politica riguarda chiunque abbia a cuore l’etica. Una società, infatti, della maggiore età morale, della coscienza e della responsabilità degli individui, può anche fare a meno: e il Novecento e il presente, lo hanno dimostrato. E questa sarebbe la sconfitta della speranza della modernità illuminata, radicata d’altronde addirittura nell’Atene di Socrate, che andava in giro chiedendo coscienza e ragioni, non comandamenti e tradizioni, per l’agire e il pensare di ognuno. Ognuno ricorda l’anti-inferno dantesco, il luogo degli ignavi. La parola non è dantesca. Noi sottolineiamo la loro pochezza, la viltà. Ma si tratta della gente che in definitiva non ha mai preso sul serio la vita, cioè l’esperienza morale. “Questi sciaurati che mai non fur vivi”, scrive il Poeta. Quelli che precisamente non vogliono distinguere il giusto dall’ingiusto, la vittima dal carnefice. Quelli che chiamano entrambi “estremisti”.