Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 2/12/2010, 2 dicembre 2010
MA STUDIARE CONVIENE?
Ci bloccano il futuro”, dicono gli striscioni degli studenti in protesta. Il problema non è un articolo preciso della riforma, non è questione di un comma da cambiare. Perché, sembra una banalità, negli atenei non si fa solo ricerca ma si insegna anche. E questa riforma non affronta il problema strutturale: in Italia studiare per prendere una laurea non conviene.
In questi giorni si stanno sovrapponendo due questioni: da una parte ci sono i ricercatori, che vedono a rischio la prospettiva di un ingresso in ruolo, magari dopo lunghi anni di anticamera (talvolta nell’illusione che bastasse questo). Dall’altra gli studenti che, almeno nel breve periodo, vengono colpiti direttamente soltanto dalla riduzione dei fondi all’Università, che si ripercuote in parte sulle borse di studio, con la prospettiva di eventuali nuovi premi al merito che per ora sono però privi di risorse. Il problema che denunciano, dai monumenti e dalle stazioni occupate, è soprattutto che nella riforma non si parla di loro.
NEL 2009 Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione europea, ha fatto la prima indagine complessiva sui giovani dei Paesi membri. È arrivata a queste conclusioni: “In Europa, in genere, il tasso di disoccupazione tende a diminuire con l’aumento del livello di istruzione. Grecia, Italia, Portogallo e Turchia sono eccezioni che hanno registrato il livello di disoccupazione più alto tra le persone con un’età tra i 25 e i 29 anni”. I disoccupati con una laurea, nel 2007 (cioè prima della crisi), erano in Italia il 19,3 per cento, esattamente come quelli con soltanto un diploma, 19 per cento. In Francia, per esempio, la differenza era molto più marcata: 9,7 per cento tra i laureati, 15,9 per cento tra i diplomati. A Parigi avere una laurea aiuta a trovare lavoro più che avere solo la licenza superiore, in Italia molto meno. Ma non è soltanto questo.
L’investimento di tempo e denaro negli studi universitari dovrebbe servire non soltanto a trovare un posto, ma anche ad avere un reddito superiore. Stando a uno studio recente della Banca d’Italia, nel 2004-2005 avere una laurea significava ottenere un reddito superiore del 60 per cento a quello di un diplomato per chi ha tra i 25 e i 64 anni, cioè per la popolazione attiva nel mercato del lavoro. Peccato che per i più giovani (tra i 30 e i 44) il bonus da laurea scende al 43 per cento, anche se in teoria il passaggio dall’economia industriale a quella della conoscenza dovrebbe determinare l’opposto, cioè rendere la laurea sempre più preziosa. Solo la Spagna fa peggio di noi tra i principali Paesi europei, negli Stati Uniti il bonus vale un +83 per cento (senza differenze tra i più giovani). E questo è un dato medio, perché le statistiche europee ci dicono che sono soprattutto i laureati maschi a guadagnare più dei diplomati, mentre per le donne la differenza è assai più ridotta.
MA DI QUESTO la riforma non si occupa. Eppure chi entra all’università è interessato all’offerta formativa, al tipo e numero di corsi di laurea offerti, soprattutto in funzione delle prospettive lavorative che aprono. Qui la riforma interviene in un solo modo: costringendo gli atenei a fare una prima selezione dei ricercatori dopo i primi tre anni di attività, consentendo di tenere solo chi si può permettere di poter trasformare in professori associati (o almeno comunicando il numero e poi lasciando competere i pretendenti). E gli altri? Chi si preoccupa di quelli che studiano per trovare un lavoro diverso da quello di ricercatore? La loro formazione è adeguata? Nell’ultimo anno la rassegna stampa della Camera dei deputati ha catalogato soltanto 17 articoli di giornale che includono le parole chiave “didattica”, “studenti” e “università” . Il tema sembra appassionare poco anche gli economisti che, dai siti di discussione più liberisti come Chicago Blog al centrosinistra del Lavoce.info, dibattono sempre più di governance degli atenei e ricerca che di didattica, di come valutare gli atenei invece che gli studenti. Traduzione empirica: ha davvero senso stanziare risorse per borse di studio in base al merito se poi, perfino nella (relativamente) efficientissima Bocconi i voti agli esami li decidono spesso assistenti neolaureati che magari non hanno neppure seguito le lezioni in aula? E perché all’estero si usano da anni lavori di gruppo, valutazione in itinere (che contiene l’abbandono) e progetti individuali mentre in Italia si insiste con gli stessi esami orali o scritti impostati come trent’anni fa? Di questo il ministro Mariastella Gelmini non si è occupata, esattamente come i suoi predecessori.