ARIANNA FINOS, la Repubblica 1/12/2010, 1 dicembre 2010
PUPI AVATI: "RESISTEVA A TUTTO ANCHE ALLE CENE DI TOGNAZZI"
Sono figure distanti, quelle di Mario Monicelli e Pupi Avati. Per poetica cinematografica, idee politiche, temperamento. Pure, i due registi hanno percorso insieme un lungo pezzo di vita, abitato nella stessa casa e condiviso esperienze.
Avati, quando è nato il vostro rapporto speciale?
«L´ho sentito vicino all´improvviso, dopo il mio primo film. Era il ‘68, lui era una star, io avevo debuttato con Balsamo, un insuccesso. Fu l´unico a difendermi: già allora era uomo controcorrente. Gli scrissi per ringraziarlo e lui mi convocò nel ristorante romano dell´Hotel della Concordia, ritrovo dei cineasti negli anni Sessanta. Mi spiegò perché apprezzava il mio film sgangherato e pieno di slanci fantastici. Nacque un´amicizia».
E poi siete diventati coinquilini.
«Sì. Il caso ci ha portato a vivere nella stessa casa, per vent´anni. A Roma, in via del Babuino, dove abito ancora oggi. I nostri figli andavano a scuola insieme, le nostre mogli erano amiche. Abbiamo condiviso una quotidianità fatta di cene con i suoi amici, il meglio tra gli autori e attori italiani. E poi...».
Poi?
«Nel 1988, lui ebbe un incidente stradale devastante. In quei giorni io fui colpito da un infarto. Ci ritrovammo ricoverati nello stesso piano del Policlinico Gemelli. Lui era riverito, politici e autori venivano in pellegrinaggio. Io ne usufruivo di riflesso: dopo aver salutato lui, poi consolavano anche da me».
Che vi dicevate in un letto d´ospedale?
«Il momento più difficile era la sera. Quando si spegnevano le luci e restavamo soli io andavo nella sua stanza. Ci facevamo coraggio l´uno con l´altro. Avevamo paura di non lavorare più e invece il cinema ci guarì. La totale debolezza in cui versava Mario, la febbre alta, il rischio, i dolori acuti, fecero aprire tra noi un´intimità profonda. Mario si svelò, senza paura di apparire meno rigoroso di quanto si è sempre imposto».
Monicelli era uomo dal carattere chiuso.
«Era rigoroso e riservato. Costretto da un pudore dei sentimenti difficile da scalfire. Negli ultimi anni era prigioniero nella volontà di dimostrare di esser indifferente a tutto, ormai non ricattabile su nessun fronte. Il suo gesto è stata una dimostrazione di indipendenza totale: era cieco e malato, ha scelto di togliersi di mezzo con un finale assolutamente imprevedibile».
Avevate mai parlato della morte?
«Sì. ne avevamo entrambi paura. Nei giorni d´ospedale io, che sono credente, avevo confidato a lui, che non lo era, di pregare per entrambi. Lui diceva "fai come ti pare", ma si capiva che non gli sarebbe dispiaciuto perfino quel tipo di aiuto, in quei momenti».
E il suo famoso cinismo?
«Era un ruolo. Da padre voleva educare i figli nella cultura della indipendenza: intellettuale, culturale, fisica, umana e sociale, dire loro che non hanno bisogno degli altri e che devono vivere le emergenze con dignità. È la lezione umana che ci ha lasciato».
Monicelli è sempre stato duro con se stesso.
«S´imponeva codici militari: fare le scale a piedi, smettere di fumare, mangiare solo insalate. Non indulgeva mai. In aereo non toccava cibo perché non amava i catering, non si faceva tentare dalle cene di Ugo Tognazzi. Ricordo un viaggio nel ‘73 al Festival di Rio, con Tognazzi e mio fratello. La sera tutti sparivano per tornare all´alba. In albergo restavamo io, mia moglie e Monicelli. Lo scoprii vulnerabile arrivando sul set di Amici Miei: Tognazzi mi svelò dell´amore di Mario per Chiara, giovane disegnatrice poi diventata la sua compagna. Un sentimento che non era riuscito a controllare».
L´ultima volta che l´ha incontrato?
«Sette mesi fa, per strada, a Roma. Dimagrito, invecchiato, allegro. Gli ho detto: "Tu hai fatto 62 film, io 40, non ti raggiungerò mai". Ha riso, orgoglioso».
Il più grande dolore professionale?
«Quando scoprì che a Cannes Boccaccio 70, film a episodi girato con Fellini, De Sica e Visconti, sarebbe stato proiettato mutilato del suo episodio. Andò al Festival deciso a entrare nella cabina a ostacolare la proiezione. Un gesto clamoroso che non gli assomigliava, non era un uomo scomposto. Fu il più grande dei suoi dolori essere escluso perché regista di commedia. Il tempo gli ha restituito il suo posto tra i grandi del nostro cinema».