NATALIA ASPESI, la Repubblica 1/12/2010, 1 dicembre 2010
LA SUA ITALIA DEI BRANCALEONI IMBROGLIONA, MASCHILE E COLTA
Probabilmente gli italiani di Monicelli non sono mai davvero esistiti, neppure negli anni in cui si correva nei cinema a ridere di loro. Un pubblico entusiasta che si credeva al riparo da quei personaggi, gli italiani altri: i ladruncoli sfigati, gli imbroglioni pasticcioni, gli opportunisti fifoni, i Brancaleoni, i Perozzi, i Busacca e i Jacovacci, l´Onofrio e il Rambaldo. Maschere meravigliose affidate ad attori grandiosi, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni e Alberto Sordi, Philippe Noiret e Totò, ma anche Capannelle, e Murgia, e Carotenuto e Moschin e Celi, tutti gli eroi di un cinema ricco di intelligenza e forza, divertente e colto, folto di centinaia di film che si presentavano modesti, artigianali, popolari, senza fisime autoriali, e anche per questo grandi. Scritti da geni della commedia bonaria e periferica, che sfornavano storie sublimi, dialoghi impeccabili, aforismi eterni: Steno, Age e Scarpelli, Suso Cecchi D´Amico, Zapponi, Benvenuti e Bernardi.
Come per molti italiani del suo tempo, il mondo di Monicelli era soprattutto maschile: popolato da vizi, debolezze, malinconie, presunzioni, inadeguatezze, sconfitte. Di maschi, appunto maschi italiani, forse esagerati anche allora, che la crudele e nello stesso tempo affettuosa sua maestria di regista rendeva irresistibili. Però il giudizio divertito e talvolta crudele era il suo, un giudizio da uomo sugli altri uomini, non quello delle donne, che negli anni 50 e 60, nella realtà come nei film, era sommesso e sottomesso, e che solo con i mutamenti sociali degli anni 70, il femminismo, le leggi che liberavano le donne dalla soggezione familiare e sessuale, si era fatto sempre meno indulgente ed ipocrita.
Questo mutare delle donne italiane deve aver colto Monicelli di sorpresa, costringendolo a riconoscere un mondo diverso, alieno, un protagonismo nuovo che in un certo senso rifletteva le sue convinzioni politiche, di democrazia, di sinistra: e infatti per la prima volta, nel 1986, a 71 anni, un suo film, Speriamo che sia femmina, si riempie di donne: Ullmann, Deneuve, De Sio, Sandrelli, Cenci, Lante della Rovere, non più un gruppo di uomini, legati da amicizia, svaghi, infantilismi, guerre, bordelli, fratellanza, complicità, terrori, ma di donne di ogni età, quelle tenute sino ad allora ai margini delle sue storie, ed ora protagoniste forti, vitali, padrone del futuro. Come uno scudo, tra tutte quelle vincenti, Monicelli trascina nel film due suoi amabili maschi, Philippe Noiret e Bernard Blier, in ricordo di quando in altre sue storie, era lui, e non le donne, a giudicare gli uomini egoisti, assenti, fragili: addirittura inutili.
Se il suo cinema coglieva i mutamenti della realtà, era il suo modo di vivere e di pensare che non poteva cambiare. A 59 anni aveva fatto quello che soprattutto nel suo mondo fanno in tanti: si era messo con una ragazza di 19, 40 anni meno di lui, Chiara Rapaccini, artista ironica e femminista, caduta innamorata di quell´affascinante gentiluomo cinico e buono; a 74 anni era diventato padre di una bimba, Rosa, per accorgersi subito dopo che la vita di famiglia, che donne in casa, ingombranti con il loro imperio, il loro amore e il loro mistero, non erano per lui. Gentilmente, le invitò ad andarsene, a lasciarlo in pace, solo, «Per rimanere vivo il più a lungo possibile, perché l´amore delle donne è molto pericoloso», e non quello delle nuove donne liberate, ma proprio di quelle cui aspiravano i suoi coetanei, e non solo loro, donne devote e protettive: alla fine soffocanti. «La donna è infermiera nell´animo, e se ha vicino un vecchio, è sempre pronta a interpretare un suo desiderio… Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona… e diventa un vecchio rincoglionito… Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere i fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più».
Nel 1968 Monicelli aveva girato La ragazza con la pistola, un film di cui era protagonista una donna, interpretata da Monica Vitti, l´attrice cinematografica italiana di maggior talento di quegli anni. Era la storia di un paese dai costumi molto arretrati, un´Italia in cui ancora l´articolo 587 del codice penale sanciva la minor punibilità del delitto d´onore. Il pubblico si divertì moltissimo per la ragazza sicula che raggiunge in Inghilterra il giovanotto che l´ha sedotta e abbandonata per ucciderlo, e poi si adatta contentissima al costume di un paese più civile. Il film fu giudicato male per i luoghi comuni sul Sud, eppure quell´articolo di legge esisteva ancora, e fu abrogato solo nel 1981, dopo l´approvazione del nuovo diritto di famiglia e della legge sull´interruzione di gravidanza.
Facendo ridere, Monicelli aveva rivelato agli italiani il loro lato oscuro, insospettato, oltre una retorica di eredità fascista che ne vantava la forza, l´eroismo, il potere, l´imperio sulla donna. Ma era difficile accettare di assomigliare a quegli uomini ingenui e un po´ imbecilli, fatui e spesso sfortunati, invecchiati senza crescere e un po´ vili: infatti il talento di Monicelli aveva trasformato i nostri piccoli vizi e modeste virtù in irresistibili commedie, che tenevano lontano lo spettatore dallo specchiarsi, negli anni 50, negli incapaci pasticcioni di I soliti ignoti, negli anni 60 negli eroi involontari di La grande guerra, poi negli scalcinati avventurieri medioevali dei due Brancaleone che con il loro linguaggio colto, inventato e irresistibile, sembrava voler opporsi all´impoverimento sbracato dell´italiano televisivo.
Con Amici miei (1975) e Amici miei atto II, (1982), Monicelli dava l´addio a un´Italia forse già scomparsa, quella dei vitelloni provinciali di mezza età, dalle vite giocose e inconcludenti, rivelando del tutto, finalmente, la sua elegante misoginia e la sua forse malinconica, misantropia.