Nino Ciravegna, Il Sole 24 Ore 1/12/2010, 1 dicembre 2010
I NO CHE SOMMERSERO VICENZA
Hanno promesso che un’alluvione così disastrosa non colpirà più Vicenza. Hanno assicurato che costruiranno i bacini di sfogo per l’acqua in eccesso, hanno giurato che i fondi arriveranno in tempi brevi, che i lavori partiranno presto, i progetti sono già pronti.
Dichiarazioni solenni e ufficiali, la burocrazia non riuscirà a intralciare la costruzione delle opere indispensabili per evitare che il Bacchiglione esondi nuovamente, allagando un terzo di Vicenza, e il Timonchio non affondi Caldogno, come è successo il 1° novembre.
Dichiarazioni solenni, che ricalcano come la carta carbone le promesse ufficiali fatte nel novembre 1966, quando il capoluogo palladiano è stato invaso dall’acqua e fango del solito Bacchiglione. Opere, progetti e costi sintetizzati nel voluminoso rapporto della commissione parlamentare presieduta da Giulio De Marchi, la prima bibbia della difesa dell’italico suolo. Prevenire si può, giurarono allora, è l’unica strada.
Promesse rimaste lettera morta, dopo la concitazione dell’emergenza i piani territoriali sono entrati nei libri dei sogni, i progetti inchiavardati nei cassetti dei tanti enti pubblici che si erano mobilitati. I lavori mai partiti. In compenso un po’ di soldi sono stati buttati dalla finestra, ennesimo esempio di malagestione in cui nessuno è colpevole.
Una storia edificante, nel 1988 il magistrato alle acque, dopo anni di studi, dà il via libera alla costruzione di un canale scolmatore di piena del bacino del Bacchiglione. Il primo lotto, costo di 10 miliardi di lire, da completarsi in 13 mesi di lavoro, viene assegnato a un’associazione temporanea di imprese specializzate dopo aver ricevuto le autorizzazioni del caso, Corte dei conti compresa. Ma il sofferto via libera non fa i conti con i comitati locali che si oppongono all’opera, promossi dagli agricoltori che non vogliono perdere terreni e appoggiati dai sindaci ansiosi di espandere le aree di urbanizzazione. Il prefetto di allora non autorizza l’esproprio dei terreni per timori di ordine pubblico, il progetto torna nel cassetto, le imprese che hanno vinto l’appalto ricorrono al tribunale e ricevono un risarcimento, per i mancati guadagni, di 5 milioni di euro. Una vittoria dei no pagata a caro prezzo, Vicenza si trova oggi a fare i conti con danni nell’ordine di centinaia di milioni di euro. La "cassa di laminazione" per il Timonchio a Caldogno negli anni 80 sarebbe costata 70 miliardi di lire, non si è fatta per le solite opposizioni iperlocalistiche, un mese fa 1.300 case e 240 imprese del paese nativo di Roberto Baggio sono state allagate, con un costo complessivo stimato in 60 milioni di euro, quasi il doppio del costo dei lavori, tenendo conto di inflazione e rivalutazioni.
Dall’alluvione del ’66 è stato fatto l’opposto di quanto andava fatto, una sorta di suicidio territoriale non certo in linea con l’efficienza del sistema imprenditoriale del mitico Nord-Est. Nei pochi casi dove sono stati ultimati i lavori i risultati si sono visti: quello che i tecnici definiscono "bacino di laminazione dell’Ovest Vicentino", a Mirabello, ha stipato 6 milioni di metri cubi di acqua (il doppio di quella che ha invaso Caldogno) salvando un territorio che arriva fino alla zone di Este, nel Padovano. L’esperienza di un mese fa dimostra ancora una volta, l’ennesima, che il costo del non fare è immensamente superiore ai danni provocati da chi si limita a sperare nello stellone d’Italia. Si è fatto l’opposto, nel 2009 il Genio civile di Vicenza aveva a disposizione 1,2 milioni di euro per la pulizia dei corsi di acqua e la manutenzione degli argini, il bilancio 2010 li ha ridotti a 440mila, di cui 140mila per il solo capoluogo. In questo mese di emergenza sono stati spesi 10 milioni per ripristinare gli argini crollati sotto l’ondata di acqua e fango. A livello regionale servirebbero 14 milioni l’anno per la manutenzione ordinaria, nel 2009 ne sono stati stanziati 6, diventati 3 quest’anno. Pulizie fondamentali, che non danno risultati eclatanti, ma che garantiscono risultati concreti, il comune di Sandrigo, circondato da fiumi e torrenti, un mese fa ha avuto danni limitati a 150mila euro grazie a un minuzioso lavoro di pulizia e manutenzione degli argini. Chi fa, guadagna.
La musica ora cambia, promettono, non rifaremo gli stessi errori del dopo-1966. Le analisi non mancano, trent’anni di studi hanno evidenziato come il 40% dei comuni veneti sia a rischio di alluvioni. Lo rileva il rapporto della regione Veneto sulla difesa del suolo, tirato fuori dai cassetti dopo l’alluvione d’inizio novembre, evidenziando anche che il 25% dei paesi vive sotto l’incubo di frane e smottamenti: il maltempo di un mese fa ne ha provocate 150, serviranno 44 milioni per ripristinare le strade e mettere in sicurezza case e stabilimenti dalle parti del Pasubio, 8 milioni solo per il paese di Recoaro, noto per le sue acque minerali. Dal 2005, secondo il rapporto, erano necessari interventi per 200 milioni l’anno, da allora ne sono stati spesi meno della metà più per tamponare emergenze che per lavorare sulla prevenzione.
Gli studi non mancano, l’Unione veneta bonifiche ha messo a punto un piano 2010-2015 per il rischio idrogeologico, 575 progetti per un costo totale di 1,526 miliardi, un piano dei sogni visto che al momento si pensa solo a 77 interventi con un impegno, al momento teorico, di 200 milioni di euro. Per la provincia di Vicenza sono state individuate cinque priorità, quelle note da tempo a tecnici e amministratori per un costo complessivo di 161 milioni. Intervenire sulle priorità delle priorità richiederebbe almeno 70 milioni, si troveranno? Parte dei fondi sono già disponibili, 30 milioni di euro, su un costo di 42 milioni, sono pronti per realizzare il bacino lungo il Guà: i lavori potrebbero partire in pochi mesi. Oltre 16 milioni sono già stati stanziati per il bacino del Timonchio, a Caldogno, per 3,3 milioni di metri cubi, costo totale 27 milioni. Mancano all’appello decine di milioni, la caccia ai fondi è partita, i veneti sperano nel Cipe dopo le promesse del premier Silvio Berlusconi, si sono rivolti anche alla Ue per ricevere risorse sulla base di progetti concreti.
Il governatore leghista, Luca Zaia, assicura che dai piani si passerà ai fatti, il decreto del governo gli ha affidato poteri speciali, potrà decretare d’urgenza gli espropri dei terreni "prescindendo da ogni altro adempimento" per realizzare i bacini di scolmo. Progetti che, accusa Zaia, sono rimasti fermi «non perché mancano i progetti o non ci sono i fondi, ma perché hanno prevalso mille microcomitati dei no». Zaia assicura che userà fino in fondo i suoi poteri speciali, il sindaco di Vicenza, Achille Variati, a capo di una giunta di centrosinistra ci spera: «Mi iscrivo tra coloro che appoggeranno il governatore Zaia se userà i suoi poteri per realizzare d’urgenza i bacini che ci possono salvare dalle alluvioni». La speranza è che la lezione del 1° novembre in qualche modo serva a evitare gli errori del dopo-1966, anche se la storia insegna che troppo spesso localismi e burocrazia prevalgono quando l’impatto emotivo di un disastro si attenua. L’iperlocalismo nimby, non nel mio cortile, invece resta sempre forte, indifferente alle emergenze.