FELICE CIMATTI, La Stampa 1/12/2010, pagina 27, 1 dicembre 2010
“Quando gli uomini discendevano dall’orso” - La curiosità per le altre specie viventi potrebbe essere considerata una delle caratteristiche distintive dell’Homo sapiens: è umano quell’animale che si interessa degli altri animali
“Quando gli uomini discendevano dall’orso” - La curiosità per le altre specie viventi potrebbe essere considerata una delle caratteristiche distintive dell’Homo sapiens: è umano quell’animale che si interessa degli altri animali. Il perché di un simile interesse ha molte ragioni, ma una, in particolare, ci sembra rilevante. La nostra umanità non è mai definitivamente acquisita: siamo umani, sì, però non ne siamo così sicuri. Basta – per limitarsi ad un’esperienza comune - sentirsi osservati da un gatto, come capitò al filosofo Derrida, e secoli di cartesiane certezze sulla specialità umana rispetto al resto del mondo vivente entrano in crisi. Alla fine non è tanto chi è l’animale, ma chi siamo noi. Che è quello che, appunto, troviamo nel libro di Bernd Brunner, «Uomini e orsi. Una breve storia»: raccogliendo una grande quantità di dati letterari, etologici, mitologici e antropologici, racconta della lunga e persistente fascinazione che hanno esercitato gli orsi sul nostro immaginario. A lungo l’umanità dell’emisfero settentrionale ha visto nell’orso un vivente molto simile a sé, ma anche molto diverso. Così diventa un animale simbolico: una proiezione di paure – la belva feroce – e anche una specie di antenato, da cui l’umanità deriva, e verso cui, spinto dal rimpianto per una vita libera dai vincoli delle tradizioni e delle regole sociali, sogna di tornare. Brunner è abile nel mostrare l’intreccio tra umano e non umano e quindi tra cultura e natura. Un rapporto che, a parte le ingenue soluzioni di tanto ecologismo, non è affatto detto sia possibile: forse - e sembra il messaggio del libro - quello che possiamo fare per gli orsi è lasciarli in pace, dove ancora ci sono. Siamo attratti dagli altri animali, ma siamo in grado di prenderli in considerazione semplicemente come tali? «Non siamo in grado di osservarli solo come animali, perché non siamo mai in una posizione completamente neutrale. La storia degli orsi è intrecciata con la nostra e dobbiamo comprendere come il nostro punto di vista sia influenzato dai rapporti che abbiamo avuto con loro: nella mitologia, nel folklore, nella scienza». L’orso è anche una specie simbolica: che cosa ha rappresentato e che cosa rappresenta tutt’ora? «E’ un animale possente, che ha sempre simbolizzato la forza. Gli esseri umani del Nord l’hanno immaginato come un essere collegato con loro, come un “parente”. Da questa vicinanza vengono denominazioni come “grande nonno” o “uomo a quattro zampe”. Allo stesso tempo è sempre stato evidente il pericolo che rappresenta. In alcune culture siberiane e tra gli Ainu, la popolazione indigena del Giappone, cuccioli di orso venivano tenuti in casa fino a quando non diventavano troppo pericolosi e dovevano essere uccisi. In tempi più recenti questi significati mitologici sono andati perduti e l’invenzione degli orsacchotti ha conferito un significato irrealistico: oggi è considerato un animale dolce che ispira coccole». Perché il tema mitologico di una creatura metà orso e metà umano è così diffuso in miti e favole? «Migliaia di anni prima che la cultura occidentale venisse a sapere dell’ esistenza di gorilla e scimpanzé, i nostri antenati potevano vedere una creatura selvaggia che poteva alzarsi sulle zampe posteriori e muoversi in posizione eretta. Dall’inizio della cultura umana ci siamo resi conto che, in qualche modo, rassomigliasse a noi: gli occhi, come quelli umani, sono disposti su un piano quasi frontale e anche lui è onnivori. Così c’è chi ha fantasticato sulla possibile esistenza di una razza umana “orsesca” diventata selvaggia, i berserker: secondo la mitologia scandinava, erano guerrieri scatenati e invincibili. E, d’altra parte, c’era anche l’idea che i bambini potessero essere allevati dagli orsi». Sia secondo le descrizioni mitologiche sia quelle etologiche gli orsi sembrano essere allo stesso tempo aggressivi e dolci, pericolosi e socievoli. Qual è la realtà? «Sappiamo che sono molto intelligenti e che possono reagire in modo diverso a seconda della situazione. Non esiste una risposta semplice alla domanda su cosa siano gli orsi». La vicenda di Bruno, che nel 2006 sconfinò dalle Alpi italiane nella Baviera e fu alla fine ucciso, ricorda quanto siano difficili le relazioni tra umani e animali: oggi c’è spazio sufficiente per noi e per loro? «Sì, certo che c’è! Ci sono centinaia se non migliaia di orsi nelle aree remote del Nord dell’America e della Siberia, dove ancora possono vivere in modo relativamente indisturbato. In altre zone del pianeta, più densamente abitate, come l’India e l’Asia sudorientale ci sono invece più conflitti». Perché si crede che siano attratti delle donne? «E’ una fantasia persistente ed è il tema de “la bella e la bestia”, ma non ha nulla a che fare con la realtà!». Tra le ragioni del fascino che esercitano quanto conta il fatto che molto difficilmente si lasciano addomesticare? «La questione della mancata domesticazione è interessante: il biologo Jared Diamond sottolinea il loro particolare “carattere testardo” e il confronto con i lupi che vivono in gruppi è molto interessante. Com’è noto, i cani derivano dai lupi. Gli orsi, invece, sono ancora orsi, anche se devono esserci stati uomini che hanno tentato di addomesticarli». Il romanzo «La famosa invasione degli orsi in Sicilia» di Dino Buzzati racconta la storia di una comunità di orsi che decide di ritirarsi dal territorio dove vivono anche gli umani perché con loro non è possibile alcuna coesistenza. E’ un pessimismo giustificato? «Avrei voluto conoscere questa storia quando stavo scrivendo il mio libro! Sembra raccontare una verità molto profonda. Una coesistenza pacifica, almeno nelle aree densamente popolate dagli esseri umani, non è né possibile né desiderabile». Nel film di Werner Herzog «Grizzly» si racconta la strana e tragica storia di Timothy Treadwell, che pretendeva di vivere con gli orsi. Alla fine un orso uccide lui e sua moglie. Sembra la morale del suo libro: lasciamo stare gli orsi per conto loro. «E’ così. Timothy Treadwell era una persona disturbata dal punto di vista psicologico e probabilmente aveva preso per vere le storie per ragazzi che aveva letto nell’adolescenza. E’ una vergogna che i suoi viaggi siano stati così avidamente raccontati dai media senza nessun tentativo di criticarlo per quello che stava facendo. Così si è contribuito a trasmettere un’immagine sbagliata degli orsi». Concludendo, gli orsi esistono davvero o sono una nostra invenzione? «Entrambe le cose! Esistono, ma abbiamo dovuto inventarli per comprenderli. Temo però che le tradizionali ricerche scientifiche, attraverso misurazioni e osservazioni, non ci portino molto avanti e alla fine non ci raccontino “tutta” la storia. Abbiamo bisogno della nostra intuizione e di leggere i segni che lasciano le loro e le nostre vite. Dobbiamo tornare indietro nella storia e immaginare come potesse essere il mondo quando in giro c’erano molti più orsi che esseri umani. La mia ambizione è che il mio libro possa essere un primo passo in questa direzione».