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 2010  dicembre 01 Mercoledì calendario

WOODY ALLEN LA FELICITÀ È UNA PAUSA

Attempato ma atletico, Alfie (Anthony Hopkins) molla la moglie Helena (Gemma Jones) dopo 40 anni di matrimonio: lui si butta in una nuova vita, lei si deprime e si rifugia da un’indovina. Nel frattempo, la figlia (Naomi Watts) crede ci sia del tenero con il principale (Antonio Banderas), mentre il genero (Josh Brolin) lascia l’impiego d’autista per terminare il suo primo romanzo, trovando una musa ad hoc (Freida Pinto). London Calling, e il newyorchese Woody Allen risponde per la quarta volta: è all’ombra del Big Ben, che – promette – You Will Meet a Tall Dark Stranger, già a Cannes e nelle nostre sale da venerdì con il titolo Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni. Bugiardo, perché nell’originale non si cela solo la promessa di felicità della cartomanzia, bensì lo spettro della signora con la falce: Woody che oggi compie 75 anni, pensa alla morte.
Allen, si è mai rivolto a degli indovini?
No, mai. Fanno soldi a spese di gente infelice: nessuno al mondo può predire il futuro, dirti dove si trova il tuo figlio sequestrato e così via. È un nonsense.
Ma possono renderti felice?
Possono fartelo credere, è vero, ma sono illusioni col respiro corto: prima o poi, scoppiano.
Lei invece?
Io soffro molto, vorrei avere una o due illusioni: non so, che il mio lavoro mi sopravviva, ma non importa, perché sei morto. Sono nato in una famiglia religiosa e tutti i miei amici lo erano: avevano una vita felice, credevano ci fosse un dio nell’universo o comunque un significato, che pure non capivano. Viceversa, io non l’ho mai pensato, anche se mi sarebbe piaciuto.
È pessimista?
Sono pessimista e andando avanti con gli anni trovo conferme. Non che le cose vadano peggio, semplicemente avevo ragione già a cinque anni.
La felicità non esiste?
Non è un mio pensiero originale, basti pensare a Nietzsche, Freud o Eugene O’Neill, ma è difficile essere felici se guardi alla vita troppo onestamente: diventa insopportabile, non ce la fai ad andare avanti. Devi avere qualcosa che ti riempia, ma se sei consapevole è arduo trovarlo, e allora ti ubriachi, ti droghi. Da parte mia, cerco di distrarmi, lavoro molto, perché osservata da vicino la vita, qualsiasi vita, è spiacevole: la coerenza intellettuale porta ansia e preoccupazioni.
Che cosa l’aiuta?
Ci sono momenti in cui provo piacere: ascoltare e suonare musica, guardare una partita di baseball, giocare con i bambini, ma appunto sono pause, intervalli.
E nel lavoro?
La sfida: scegliere i costumi, trovare le location, far fronte ai problemi sul set. Serve tutto, per distrarsi.
Dunque, vale la pena vivere?
Non ne ho consapevolezza intellettuale, diciamo che così parrebbe. Se piombasse qui un uomo armato, tutti ci metteremmo a gridare: ‘Non mi uccida!’ e lotteremmo per sopravvivere. Se la vita fosse senza senso, non lo faremmo, ma è qualcosa che abbiamo dentro, non ne siamo consci.
Che ruolo spetta all’arte?
Una della ragioni d’essere dell’artista starebbe nell’affermare che vale la pena vivere, nonostante la crudeltà, la solitudine e tutto il resto, senza illusioni, falsità e nonsense. Per quanto mi riguarda, non so se ce l’ho fatta.
Condivide mai con i suoi figli questa visione?
Non gliene parlo, sono piccoli e spero abbiano un punto di vista autonomo, più ricco e complesso del mio. Che facciano di meglio, e un giorno possano provare che il mio pessimismo fosse infondato.
Che rapporto ha con il pubblico?
Spero trovi i miei film eccitanti, divertenti, si interessi ai personaggi, alla storia, a quel che succede dopo. Non mi curo se gli arrivino delle idee, magari da discutere poi con gli amici: ovviamente, sarebbe bello, ma la cosa peggiore è che si sia annoiato. Vorrei andasse al cinema come me da piccolo: per divertirsi, punto e stop.
Che motivazioni trova ogni volta per passare dietro la macchina da presa?
Mi piace: se lavorassi in ufficio, ogni sera tornerei a casa a scrivere storie, ma sono fortunato e faccio questo lavoro da anni. Amerei fare un grande film che venisse salutato come Quarto potere o La grande illusione, ma è una sfida personale, non uno scopo: non ho mai cercato di raggiungere qualcosa, bensì di essere un regista-operaio. Come Ingmar Bergman, che non voleva fare un capolavoro, ma semplicemente un film dopo l’altro.
È orgoglioso dei suoi film?
Un regista è sempre scontento: ogni volta leggi la sceneggiatura, pensi a grandi attori, grande fotografia, e scommetti sarà il miglior film della storia. Poi vedi il premontato e ti si stringe il cuore: qui ho sbagliato, qui ‘perché non sono andato a casa prima?’, qui ‘oh, mio Dio!’. Al pubblico potrà anche piacere, perché non l’aveva in testa, non al regista: dal ’68 non ho rivisto un mio solo film, quando passano in tv cambio subito canale.
Tornerà a recitare?
Mi piacerebbe, ma ci vuole la parte giusta: non posso più fare il protagonista romantico, sono troppo vecchio, purtroppo.
Viceversa, nel prossimo Midnight in Paris troveremo Carla Bruni: il final cut l’ha avuto Sarkozy?
Macché, è venuto sul set e le ha detto: ‘Se lo vuoi fare, vai avanti’. In America, e anche altrove credo, non sarebbe mai potuto succedere, ma Carla è prima una persona che una first lady.
Sarà un film cupo come Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni?
No, molto romantico: Parigi ha fatto uscire tutto il mio romanticismo. A New York, mi dicevano: ‘Questa non è NY, non è quella di Scorsese e Spike Lee’, e avevano ragione, era la mia personale concezione della città, perché amo le metropoli, come Londra, Barcellona, Roma. Con Parigi succederà la stessa cosa: ne sono follemente innamorato.