Peter Gomez, il Fatto Quotidiano 1/12/2010, 1 dicembre 2010
UN CONFLITTO SEMPRE PIÙ D’INTERESSE (SUO)
La sorpresa arriva dalla lettura del maxi-emendamento presentato dal governo alla legge finanziaria e già votato dalla Camera. Lì, nascoste tra le pieghe di complicati commi dedicati al digitale terrestre, ci sono quattro righe che tradotte in italiano hanno un significato preciso: Palazzo Chigi, ovvero il proprietario di Mediaset Silvio Berlusconi, vuole evitare a tutti i costi il rischio che a qualche matto venga in mente di mettere in piedi una nuova tv nazionale. O che almeno lo faccia a basso costo creando un network tra tv locali disposte a ritrasmettere, magari in diretta, un’unica programmazione.
L’INGHIPPO, che rappresenta un ulteriore colpo al (mancato) pluralismo televisivo in Italia, è celato dietro il comma 16 del maxi emendamento. La norma, infatti, stabilisce che entro 30 giorni dall’entrata in vigore della finanziaria il ministero per lo Sviluppo economico e il garante per le comunicazioni, fissino “ulteriori obblighi” a carico delle tv locali titolari di frequenze digitali. E che tutto questo avvenga “ai fini (...) della valorizzazione e promozione delle culture regionali e locali”. In pratica, a partita già in corso, si dice che presto verranno create nuove regole. Regole che se fossero violate, recita la legge, comporteranno la perdita delle frequenze per “i titolari del diritto”.
Detto in altre parole: se un editore si metterà a produrre contenuti e poi utilizzerà un network per diffonderli in tutta Italia avrà quantomeno di fronte a sè la prospettiva di dover intervallare le sue trasmissioni con programmi sui canti di montagna, piuttosto che la pizzica o i mamutones, a seconda delle tv locali a cui si appoggia. Ma potrebbe andare anche peggio. La cronaca di quanto accaduto negli scorsi mesi dimostra che l’obbiettivo del governo è uno solo. Stroncare il pluralismo nella culla e obbligare chiunque voglia mettere in piedi una tv digitale diffusa in tutta Italia a rivolgersi a 21 operatori di rete (Rai, Mediaset, Telecom e molti altri) a cui sono state date frequenze nazionali. E se si pensa che oggi affittare un canale sul mercato costa circa 4 milioni di euro ecco che per i piccoli editori l’impresa diventa impossibile.
Inizialmente per raggiungere l’obbiettivo Palazzo Chigi-Mediaset aveva tentato di battere una strada più radicale: vietare tout court alle tv locali di ritrasmettere sulle loro frequenze qualsiasi canale nazionale. In giugno, stando a quanto Il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare, per gli uffici del ministero dello Sviluppo economico, ancora retto ad interim da Berlusconi, era circolata la bozza di un decreto legge. Un articolato che, sotto la voce “gestione dello spettro radioelettrico”, al comma 4 recitava “i diritti d’uso delle radiofrequenze assegnati agli operatori di rete locali possono essere unicamente utilizzati per la diffusione di servizi abilitati a essere diffusi in ambito locale”. Subito, però, tra le tv private era cominciata a spirare aria di rivolta. Non solo perché tutti gli operatori del settore avevano ben presente la storia imprenditoriale del premier che, nei primi anni ‘80, si era messo a trasmettere con Canale 5 su scala nazionale, stringendo accordi con centinaia di emittenti locali. A mandare in bestia quelli delle tv private era soprattutto un altro particolare. Trent’anni fa Berlusconi aveva fatto ricorso a questo trucco per cercare di non incappare nei rigori della legge che, al quel tempo, impediva a chiunque di far concorrenza alla Rai. Oggi invece è la legge a dire con chiarezza che i network sono permessi. Il Garante delle Comunicazioni con la delibera numero 435/01 ha esplicitamente stabilito che “l’operatore di rete in ambito locale (la tv privata, ndr) può fornire servizi di trasmissione e diffusione a fornitori di contenuti (gli editori, ndr) in ambito nazionale”. Così, in giugno, di fronte alla rivolta delle private il progetto era stato bloccato . I lobbisti dei grandi operatori, in primis quelli di Mediaset capita-nati dalla potentissima Gina Nieri, erano rientrati nei ranghi. Per poi rimettersi immediatamente all’opera su fronti diversi. E prima ancora che pensare di intervenire sulla Finanziaria, erano ripartiti all’attacco del ministero per lo Sviluppo Economico, da ottobre finito nelle mani di Paolo Romani. Qui, a partire dall’estate, erano cominciate ad arrivare alcune richieste di editori nazionali (“fornitori di contenuti”) che si facevano trasportare su frequenze di tv locali. Lo avevano fatto, per esempio, Virgin Tv e Play Me, due televisioni specializzate in video musicali.
TUTTE e due chiedevano che il ministero assegnasse loro una numerazione Lcm (Logic channel number) sui vari decoder. La legge infatti prevede che sia il dicastero a stabilire quali tasti del telecomando si devono premere per vedere un canale (“fornitore di contenuti”) nazionale. In entrambi i casi i due editori avevano fatto presente di stare prendendo pure in considerazione l’ipotesi di stringere un accordo per essere diffusi da un grande operatore (Telecom). A fine novembre arrivano le risposte. Sconcertanti. Il ministero dice più o meno: è vero che la legge vi consente di rivolgervi alle tv locali. Ma se battete questa strada il vostro canale, anche se è nazionale, finisce oltre il numero 180 (182 per Play Me), dove stanno le locali. Invece, se vi rivolgete a un grande operatore finirà intorno al 60 (68 per Play Me) dove stanno tutte le altre tv musicali nazionali. Ma attenzione: avete solo tre mesi di tempo per farlo.
Il messaggio insomma è chiaro: la tv a basso costo non deve esistere. Nè se si tratta di musica, nè (soprattutto) se si tratta d’informazione. E tra pochi giorni, quando la Finanziaria sarà approvata, quel messaggio diventerà legge dello Stato.