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 2010  dicembre 01 Mercoledì calendario

L’ospedale-miracolo italiano che salva i bambini dall’Aids - «La prima pil­lola si chiama speranza»

L’ospedale-miracolo italiano che salva i bambini dall’Aids - «La prima pil­lola si chiama speranza». Ket­ty Opoka, lo spiega con la sem­plicità di chi lo fa ogni giorno. Di chi da una vita affida a que­sta regoletta banale una mis­sione un tempo impossibile. Per i testi di medicina interna­zionale è semplicemente Pmtct. Un acronimo, un ab­breviazione, cinque lettere per dire “prevenzione mater­no fetale”. Senza quella tera­pia l’Aids non è contagio, ma flagello, decimazione, estin­zione della specie. Soprattut­to in Africa, soprattutto in Uganda, soprattutto in questa prima linea del male a sei ore di macchina da Kampala. Qui ai confini con il Sudan ancora oggi, nonostante prevenzione e farmaci retrovirali, il dieci per cento delle donne incinte risulta sieropositivo. Da otto anni quelle donne vengono in­dividuate e trattate a base di neviparina, grazie ad un pro­gramma dell’organizzazione mondiale della sanità svilup­pato dal governo ugandese e dai volontari italiani dell’Avsi. «Il Pmtct permette di ridurre del 70% la trasmissione del vi­rus somministrando nevirapi­na alla madre durante le do­glie e al figlio entro le prime 72 ore di vita –spiega Mila Valsec­chi, 37 anni, medico anestesi­sta del Niguarda di Milano da poco trasferitasi qui a Kitgum per seguire i programmi medi­ci dell’Avsi-. Qui all’ospedale St Joseph’s siamo stati fra i pri­mi a introdurre il programma. Ogni anno circa 30mila donne incinte raggiungono l’ospeda­le e, se risultano sieropositive, vengono sostenute durante il parto e l’allattamento, i due momenti più rischiosi per la trasmissione del virus. In Uganda ogni anno 77mila don­ne s­ieropositive rimangono in­cinte e quindi circa 23mila bambini, il 30 per cento, nasce­rebbe con il virus dell’Hiv. Ma per salvare bisogna convincer­le a venire all’ospedale, biso­gna spingerle a farsi curare». E qui inizia la parte di Ketty, un lungo cammino e un piccolo segreto assai italiano. Ketty te lo racconta inse­guendo gli occhi del dottor Vi­to Schimera e di sua moglie Anna, due volontari dell’Avsi tornati da queste parti dopo es­serci vissuti dal 1991 al 1996. «Qui da noi una donna incinta che scopre di essere sieroposi­tiva - racconta Ketty - è una donna sull’orlo del baratro. Una donna senza più speran­za. Una donna convinta di aver condannato a morte non solo se stessa, ma anche il pro­prio figlio. Il mio primo pensie­ro è cacciare quel fantasma, li­berarla dallo stigma dell’Aids, gridarle “attenta, non solo puoi sopravvivere, ma puoi an­che metter al mondo dei figli sani”. Per riuscirci devo però convincerla ad ascoltarmi, far­la venire all’ospedale, persua­derla a seguire la terapia. Per questo la prima pillola si chia­ma speranza ». In quella rego­la è nascosto il segreto italia­no, la ricetta misteriosa capa­ce di tramutare la condanna in voglia di vivere, le cure in gioia. Per comprenderla biso­gna fare un salto nel tempo, riandare con Ketty Opoka, con Vito e con Anna agli anni Ottanta. «Allora Avsi era solo un pugno di amici, – racconta Vito - l’Aids invece era un fla­gello misterioso, un nemico capace di rubarti giorno dopo giorno tutti quelli che ti stava­no intorno». Ketty lo ricorda bene. «Oggi ho 57 anni, allora ne avevo 30,facevo l’insegnan­te e all’improvviso il male si prese Elis. Era un mio ami­co, ma anche un amico di quei ragazzi italiani. Quando andavo a tro­varlo, al suo fianco trovavo sempre lo­ro, assieme a tanti ugandesi. A quel tempo non era né facile, né scontato. A quel tempo nes­suno sapeva da dove arrivava il contagio. Nessuno sapeva come si trasmetteva. Chi se lo pigliava era condannato a mo­rire solo, infelice e dimentica­to. Elis, invece, non era mai so­lo, non era mai triste. Mi rac­contava di averlo imparato da­gli amici italiani. L’amore che mi regalate, mi ripeteva non appartiene a noi, ma a Dio. Lo guardai morire sorridendo e la mia vita cambiò. Lasciai la scuola, la paga, la certezza del­la pensione. Capii che da quel momento dovevo riuscire ad insegnare aglialtri quell’amo­re che Elis aveva imparato da­gli italiani». Per Vito, per Anna, per chi in quegli anni portava in Africa gli insegnamenti del cattolice­simo di Don Giussani, non era solo un atto di fede. «Salvare l’Africa per noi non significa­va distribuire aiuti, ma lascia­re un messaggio, imprimere un modello, una testimonian­za capace di ripetersi anche senza la nostra presenza». Da quel messaggio, dall’insegna­mento degli amici arrivati dal­­l’Italia, partono la strada di Ketty Opoka, la strada dei mee­ting point , dei punti d’incon­tro. In quei centri nati dentro le loro stesse case Ketty e un pugno di altre volontarie ini­ziano a dare assistenza ai ma­lati che nessuno vuole. In quei centri l’amore e la spe­ranza sono la prima medici­na. Lì Ketty e gli amici italia­ni incominciano prima a combattere la solitudine dell’Aids e poi -nel 2002 - a cercar di debellare il flagello della trasmis­sione di madre in fi­glio. Oggi tutto il pro­g­ramma di preven­zione materno fe­tale che porta le donne incinte al­l’ospedale St. Joseph di Kit­gum si basa sui meeting point di Ketty e sul soste­gno offerto dai volon­tari dell’Avsi. In quei centri la fede e la tenacia di un gruppo di volontari italiani è diventato il punto di partenza per restituire la speranza all’Africa e rompere la catena dell’Aids.