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 2010  dicembre 01 Mercoledì calendario

Una buona legge: chi la contesta non ha argomenti - Francesco Giavazzi ha scritto sul Corriere della Sera di ieri un edito­r­iale fulminante quanto illuminan­te, a partire dalla citazione iniziale di Luigi Einaudi: «Del valore dei laureati unico giudice è il cliente; questi sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere, e libero di fare a meno di ambedue se i loro servigi non gli paiano di valore uguale alle tariffe scritte in decreti che creano solo monopoli e privilegi»

Una buona legge: chi la contesta non ha argomenti - Francesco Giavazzi ha scritto sul Corriere della Sera di ieri un edito­r­iale fulminante quanto illuminan­te, a partire dalla citazione iniziale di Luigi Einaudi: «Del valore dei laureati unico giudice è il cliente; questi sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere, e libero di fare a meno di ambedue se i loro servigi non gli paiano di valore uguale alle tariffe scritte in decreti che creano solo monopoli e privilegi». ( La li­bertà della scuola , 1953). Einaudi proponeva di abolire il valore lega­­le dei titoli di studio: argomento sa­crosanto, che una cultura politica davvero liberale dovrà un giorno riprendere. Da lì si dovrebbe parti­re per una riforma davvero radica­le dell’università italiana. Ma occorre riflettere anche su un altro punto fondamentale: si può fare meglio in un contesto cul­turale e politico che negli anni ci ha condotto all’attuale situazio­ne? Cioè quella di un’università dove i concorsi, che dovrebbero se­lezionare i migliori,paradossalmente costituisco­no l’origine marcia, la madre di tutte le corru­zioni degli atenei italiani. Concorsi di cui si conoscono a priori i vincitori, parente/amico/ protetto/oggetto di scambio di un barone o di un gruppo di baroni. Quanto ai baroni, la legge Gelmini taglia vieppiù le loro unghie prevedendo che nei consigli di amministrazione possano sedere anche dei non accademici. Sembra un princi­pio elementare, e non si capisce perché se ne debba discutere, come se fosse scontato che un docente di letteratura italiana o di fisica debba per forza essere anche un buon ammi­­nistratore. Peccato, anzi, che la legge non im­pedisca che il rettore possa presiedere sia l’ateneo sia il suo cda. L’università deve essere amministrata an­che con criteri di gestione manageriale, se vuo­le funzionare. È dunque giusto che i fondi pub­blici di cui potrà disporre ogni ateneo siano in relazione ai risultati ottenuti. Si tratta di un principio basilare del liberalismo, della com­petitività, della gestione d’impresa, delle spe­ranze di vittoria: vale per gli studenti nell’otte­nimento delle borse di studio come nelle aziende bene amministrate, perché non do­vrebbe valere altrettanto per l’istituzione che - più di ogni altra - deve essere formativa? C’è chi sostiene,polemicamente e strumen­talmente, che i fondi sono stati ridotti. Gli os­servatori più equilibrati riconoscono che i fondi - nonostante la crisi generale - sono ri­masti al livello del 2007-08. C’è poi chi confonde il precariato con il me­rito. La riforma introduce la figura di docenti giovani in prova per sei anni, che verranno confermati in base a«risultati positivinell’in­segnamento e nella ricerca». Che c’entra con il precariato? Se hai ottenuto buoni risultati verrai confermato e presumibilmente pro­mosso, se non li hai ottenuti verrai giustamen­te invitato a cercare un altro lavoro. A questo proposito è davvero stravagante l’emenda­mento proposto dall’Udc, che vorrebbe abro­gare il Comitato dei garanti per la ricerca, in­trodotto su proposta del Gruppo 2003, ovve­ro i trenta ricercatori italiani i cui lavori han­no ottenuto il maggior numero di citazioni nelle pubblicazioni scientifiche di tutto il mondo. Occorre informare d’urgenza l’Udc che la ricerca è alla base della vita stessa di un’università che non sia soltanto un laurifi­cio. E che la riforma Gelmini- per quanto mi­gliorabile - va proprio in quella direzione.