Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 01 Mercoledì calendario

LE CARRE’ PERSO IN STORIE DA NO GLOBAL E PACIFONDAI


John Le Carré, come del resto capita (salute a noi) un po’ a tutti, non è migliorato con l’età. Ormai quasi ottantenne, l’opera d’una vita letteraria ben spesa dietro le spalle, l’autore d’alcune spy stories immortali è diventato una sorta di pentito della guerra fredda. Al centro dei suoi ultimi romanzi (compreso il più recente, Il nostro traditore tipo, Mondadori, pp. 338, 20,00, fresco di libreria, dove il tesoriere della mafia russa cerca scampo dai suoi soci, che lo vogliono morto, implorando asilo politico dalle autorità inglesi) non ci sono più i personaggi d’un tempo. Cioè figure perfettamente modellate sotto il profilo ideologico e umano, spie romantiche e realistiche insieme, paladini della buona causa per scelta o per caso, vittime, killer, brutti ceffi. Da qualche anno a questa parte, come se con la guerra fredda fosse finita anche la giovinezza del mondo, al centro delle storie di John Le Carrè, oggi più cinico e smaliziato che mai, c’è una sorta di ripensamento generale. Le Carré sembra pensare che il mondo, dopotutto, non sia mai stato come se lo erano immaginato i suoi eroi e non si riconosce più nel ruolo letterario che ha giocato tra gli anni settanta e gli anni ottanta, nel periodo compreso tra due pietre miliari della narrativa spionistica, La spia che venne dal freddo (del 1965) e La Casa Russia (del 1989). All’epoca i bersagli delle spie occidentali erano l’impero sovietico e l’ideologia comunista («una guerra cominciata nell’ottobre del 1917», diceva il suo eroe George Smiley, protagonista della Talpa, poi anche di Tutti gli uomini di Smiley e dell’Onorevole scolaro). Adesso i nemici, nelle storie di Le Carré, sono le spie occidentali, specie inglesi e americane, insieme alla loro musa cannibale, il capitalismo selvaggio delle multinazionali, lo stesso babau evocato da no global e pacifondai.

John Le Carré, al secolo David Cornwell, scrittore di mirabile e disincantata eloquenza, il nostro inglese tipo se mai ce n’è stato uno, rispettoso delle istituzioni nonché funzionario dei servizi segreti inglesi in gioventù, semplicemente non si sente più a proprio agio là dove lo collocano, volere o volare, le storie della letteratura. Vale a dire al centro esatto della prima fila nella foto di gruppo dei moderni autori di spy stories, nessuno dei quali, a parte forse Graham Greene in alcune storie degli anni trenta e quaranta, è mai stato nemmeno lontanamente alla sua altezza, ma con i quali ha non di meno cantato l’armi, gli amori e le grandi imprese dei cavalieri che si sono affrontati con maschere e pugnali nell’ombra fitta della guerra fredda. Le Carré aveva fatto di questa guerra di spie, che i suoi colleghi (l’intero catalogo di Segretissimo) avevano trasformato in un banale fumetto, uno scenario shakespeariano, dove ci si batteva in nome della ragione contro gli orrori dell’irrazionalità incarnati dall’utopia pienamente dispiegata che aveva divorato prima se stessa e ora s’accingeva a divorare il pianeta intero, un continente dopo l’altro. Era un mondo adulto, quello che Le Carrè metteva in scena nei suoi romanzi. Non erano solo verosimili, le sue trame, né soltanto realistiche. Erano vere. Quando descriveva il milieu dei servizi inglesi, oppure disegnava le trame segrete del kaghebé, sapeva di che cosa stava parlando. Sembra, invece, un pesce fuor d’acqua quando denuncia le apocalissi ambientali e umane provocate dai cartelli farmaceutici, oppure descrive l’arrembaggio della mafia russa alla finanza globale. Sono cose di cui non sa nulla. Ne parla come uno scrittore di fantascienza, tirando svogliatamente i dadi, parla di viaggiatori nel tempo o degli abitanti delle lune di Giove.