Maria Teresa Cometto, Il Riformista 30/11/2010, 30 novembre 2010
Scrivere o non scrivere? Questo è il wikiproblema dei quotidiani del duemila Anche il Wall Street Journal aveva ricevuto da Wikileaks l’offerta dei documenti che stanno facendo tremare la diplomazia americana
Scrivere o non scrivere? Questo è il wikiproblema dei quotidiani del duemila Anche il Wall Street Journal aveva ricevuto da Wikileaks l’offerta dei documenti che stanno facendo tremare la diplomazia americana. Ma il quotidiano conservatore, pubblicato dalla NewsCorp di Rupert Murdoch, ha rifiutato l’offerta come ha rivelato ieri nell’articolo «Pubblicare fughe di notizie, o non pubblicare?». E così, l’unico giornale Usa che da domenica ha iniziato a diffondere la nuova ondata di documenti segreti raccolti dal sito di Julian Assange è il “liberal” New York Times. Che peraltro non ha ricevuto i documenti direttamente da Wikileaks, ma dal Guardian, il membro britannico del network di giornali che stanno collaborando nell’impresa. Il tedesco Der Spiegel, il francese Le Monde e lo spagnolo El Pais sono gli altri, anch’essi perlopiù orientati a sinistra. Lo si può definire un “cartello liberal anti-americano”? Di fatto sì, a leggere la definizione di Wikileaks scritta da un analista del Cairo, Issandr El Amrani: «È un progetto contro l’immagine del potere americano nel mondo o contro l’imperialismo Usa». Lo stesso fondatore e animatore del sito, Assange, lo dice in parole simili spiegando sul suo sito il senso dell’ultima campagna: «Questo rilascio di documenti rivela le contraddizioni fra ciò che dichiarano pubblicamente gli Usa e ciò che dicono a porte chiuse». E in un’intervista rilasciata a John Burns del New York Times, pubblicata lo scorso 23 ottobre, si legge: «Assange ha detto che l’America è sempre più una società militarizzata e una minaccia alla democrazia». Se questo è l’umore di Assange, si capisce come si fidi innanzitutto dei media europei che si sono espressi contro l’interventismo militare americano e che in generale sono critici verso Washington. Più complesso invece è il rapporto con i media americani. Fino alla pubblicazione dei documenti sulle guerre in Afghanistan e Iraq, il New York Times faceva parte del pool usato da Wikileaks, ma la relazione si è rovinata proprio dopo quell’intervista di Assange a Burns, dove venivano riportate le critiche dei dissidenti interni alla rete di Wikileaks, in particolare sulla decisione di svelare l’identità di collaboratori afghani degli Usa, mettendone a rischio la vita. Ne «emerge l’immagine del fondatore di WikiLeaks come (…) qualcuno con uno stile sempre più dittatoriale, eccentrico e capriccioso», aveva scritto Burns, riportando in particolare il giudizio di uno di quei critici, Herbert Snorrason: «Non è sano di mente». E così per i segreti diplomatici WikiLeaks non ha contattato come al solito il New York Times, ma il Wall Street Journal, che Murdoch sta trasformando in un giornale a 360 gradi, non più solo finanziario, e in diretta concorrenza con il Times su tutti i fronti. Offerta respinta, perché implicava la firma di “un accordo di riservatezza”, ha spiegato il WSJ: «Non volevamo sottoscrivere un insieme di pre-condizioni legate alla pubblicazione dei documenti di WikiLeaks senza aver accesso a una comprensione ampia di che cosa quei documenti contenevano». Anche la CNN, secondo il WSJ, ha rifiutato di sottoscrivere un accordo con WikiLeaks, senza però spiegarne i motivi. Tagliato fuori inizialmente dall’accordo, il Times ci è rientrato attraverso The Guardian, che temeva che un’ingiunzione della giustizia britannica potesse impedire la stampa dei documenti. «Ad eccezione della tempistica nella pubblicazione, il materiale è stato dato senza condizioni. (…) Gran parte di questi documenti sarebbero stati resi pubblici indipendentemente dalle decisioni del Times. (…) Ignorare questo materiale avrebbe significato negare ai nostri lettori la cronaca attenta e l’analisi ponderata che si aspettano quando questo tipo di informazioni diventa pubblico», hanno scritto nella “Nota ai lettori” i responsabili del New York Times per spiegare il perché della loro decisione. Aggiungendo di aver anche chiesto un parere al ministero degli Esteri Usa e accettato alcune sue correzioni redazionali. Un compromesso, insomma, per non perdere lo scoop e insieme non apparire nemici del governo Obama, che il Times sostiene. Restano le due versioni sulle “condizioni” richieste da WikiLeaks: solo sui tempi, come giura il Times, o di altro tenore, come suggerisce il WSJ? E resta anche il mistero su come Wikileaks paga le proprie spese (circa 200 mila euro l’anno): non sembra chiedere soldi ai giornali per i suoi “leak”, ma dichiara di basarsi solo su donazioni, piccole (in media 20 euro, online) e grandi (decine di migliaia di euro per volta) da parte di “contatti personali”, sulla cui identità non c’è la stessa trasparenza che Assange impone al resto del mondo.