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 2010  novembre 30 Martedì calendario

QUANDO L’EURO LEGA LE MANI AI PAESI DEBOLI

«La speculazione scommette contro l’euro e, di conseguenza, penalizza i paesi più deboli nel Vecchio continente». Allarga le braccia il capo della sala di trading di una banca italiana. Domenica è stata salvata l’Irlanda, ma lunedì i mercati hanno picchiato duro l’intera Europa come se il salvataggio di Dublino non ci fosse mai stato. Lo spread rispetto ai Bund tedeschi è salito a 453 punti base per il Portogallo, a 274 per la Spagna e 195 per l’Italia. Il mercato, nel cinismo delle quotazioni, è come se avesse fatto la classifica dei paesi più deboli post-Grecia e Irlanda: prima c’è il Portogallo, poi la Spagna. E, allargando il tiro, ha iniziato a puntare sull’Italia. Si tratta, ovvio, di tre realtà ben diverse. Eppure, in controluce, hanno un problema comune: non possono agire, come farebbe qualunque stato, svalutando la moneta. Perché non hanno più valute nazionali. Forse Stati Uniti e Gran Bretagna hanno bilanci pubblici e privati peggiori, ma i paesi europei hanno le mani legate: non possono agire autonomamente né sul cambio, né sui tassi. E i mercati ci giocano sopra. Con cinismo.

Portogallo e Spagna

I primi della lista sono Portogallo e Spagna. Lisbona ha un’economia zavorrata da un eccesso di debito, sia pubblico sia privato, e ha sempre avuto un bilancio statale in rosso. Con quel -9,3% di deficit, il Portogallo è guardato con sospetto dai mercati. La Spagna, in quanto a rosso di bilancio, è anche peggio: -11,1% nel 2010. Per contro, però, ha un basso debito pubblico, pari al 53,2% del Pil (contro una media europea del 79,2%): questo dà a Madrid una maggiore capacità di assorbire gli shock. Ma in Spagna il vero nodo è il debito privato, creato con il boom del mattone degli anni passati: «Le banche prestavano alle società immobiliari per costruire case e poi finanziavano le famiglie per comprarle», osserva Silvio Peruzzo, economista di Rbs. Per ora i prezzi delle case non sono scesi molto (-12% dai massimi del 2008), ma se calassero di più, per le banche potrebbero esserci problemi. Poi per lo stato.

Cosa fare dunque? La risposta più ovvia sarebbe svalutare le monete nazionali e ridare slancio all’economia. Ma Madrid e Lisbona non sono Washington. Dunque a loro non resta che la seconda opzione: tagliare le spese. «I portoghesi dovrebbero fare come hanno fatto i paesi baltici – suggerisce un economista –: tagliare gli stipendi del 20-25%». Ma se si tagliano i salari, difficilmente l’economia cresce. E se l’economia non cresce, difficilmente si aggiusta il bilancio. Spagna e Portogallo erano infatti abituate ad aumentare il Pil nominale del 7,6% e del 4,2% all’anno dal 2000 al 2007: questo generava entrate fiscali sufficienti per tenere in piedi la baracca. Ma ora la musica è cambiata: dunque per tenere in piedi la stessa baracca servono sacrifici.

L’Italia

Il Belpaese non ha questo problema: anche in passato l’economia cresceva in maniera moderata (non ha mai fomentato bolle), per cui oggi non subisce un eccessivo rallentamento. Come dire: la sua economia e il suo fisco sono già "tarati" per questo tipo di crescita. L’Italia ha inoltre molteplici altre virtù che la differenziano da Spagna e Portogallo: ha un basso debito privato (famiglie e imprese), ha un sistema bancario solido, ha un bilancio pubblico con un deficit contenuto. Anzi: il bilancio primario dello stato, aggiustato per il ciclo economico secondo le stime di Rbs, è stato mediamente in positivo del 2,2% sul Pil tra il 1999 e il 2007. È poco noto, ma in quegli anni abbiamo battuto anche lo 0,6% della virtuosa Germania. E oggi siamo ancora tra i paesi migliori. Il problema è però che tante virtù sono offuscate da un grande neo: il debito pubblico. Una zavorra stimata nel 2010 dalla Commissione europea al 118,9% del Pil, che brucia ogni anno – calcola Standard & Poor’s – il 10% delle entrate del governo.

Per abbassare il debito pubblico servirebbe una robusta crescita economica: solo così si ridurrebbe il rapporto con il Pil e si incrementerebbero le entrate fiscali. Il problema è che l’Italia cresce poco. E infatti le entrate fiscali – che secondo la Commissione europea nel 2010 raggiungeranno il 46% del Pil contro il 46,6% del 2009 – nei primi tre trimestri dell’anno sono leggermente diminuite. A questo si aggiunge la bassa produttività: se tra il 1998 e il 2008 quella tedesca è aumentata del 22% e quella francese del 18%, la produttività in Italia è aumentata solo del 3%. Questo non piace ai mercati: le tante virtù sono probabilmente più forti dell’unico grande neo, ma in mancanza di una forte crescita economica i problemi non si risolvono facilmente. Gli economisti sostengono che il debito sia sostenibile (del resto l’Italia lo gestisce da decenni), ma i mercati – nella bufera europea – preferiscono investire altrove.