Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 30/11/2010, 30 novembre 2010
JOVANOTTI: I CANTAUTORI, MAESTRI DI UNA LINGUA ORMAI PASSATA —
Lorenzo, lei intitola il nuovo libro Viva tutto!. Dopo il verso che le ha attirato tante critiche — «io credo che al mondo esista solo una grande chiesa/ che parte da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa» — un titolo ecumenico. Perché «viva tutto»? Viva anche Hitler e Stalin?
«Certo che no. Viva tutto! è il saluto, magari ingenuo, con cui concludo le mail agli amici. È un gioco, ma non solo. Indica che tutto è necessario per un confronto; anche quel che non ci piace. È la mia attitudine verso le cose. Nasce dalla mia ignoranza di base, dallo sforzo di non aver paura di ciò che mi fa più paura. Voglio bene a persone così diverse tra loro, che se venissero chiuse in una stanza non avrebbero nulla da dirsi; ma se io entro in quella stanza, qualcosa succede. Questa è la mia forma personale di talento».
Quali sono i personaggi pubblici tra i suoi amici?
«Tanti, da Maurizio Cattelan a Giovanni Lindo Ferretti. Quando con Giuliano dei Negramaro e Mauro Pagani sono stato promotore di Do
mani, la canzone per l’Abruzzo, l’istinto mi ha detto di mettere insieme Ligabue e Al Bano, Battiato e Nek».
A proposito di cantautori, lei nel libro sembra relegarli tra le cose finite.
«Quella dei cantautori è una storia passata, anche se non morta. De Gregori per me è un maestro, come Italo Calvino. Però la lingua dei cantautori è ormai storicizzata. Mia figlia Teresa, che ha undici anni, adora De André, come lo adoravo io alla sua età. Nella beatificazione laica che stanno facendo di Fabrizio si tende a dire che oggi manca un De André. Ma un cantautore che oggi emulasse De André non sarebbe attuale, non funzionerebbe. Gli darebbero il premio Tenco, che è un premio all’anzianità, a qualcosa che c’è già stato. La realtà è da un’altra parte. Gli strumenti della nostalgia e del rimpianto sono i più sbagliati per capire l’oggi, perché lo fanno sembrare brutto, triste, limitato: un culturista con poco cervello. La mia forma di resistenza è valorizzare l’oggi, vederne i segni vitali, fecondi».
Lei parla di De André, che non c’è più. Ma gli altri cantautori continuano a incidere dischi. Non le piacciono?
«Li compro. E li ascolto. Paolo Conte a 73 anni ha fatto un disco formidabile. Altri mi pare fatichino di più a ritrovare la forza vitale di un tempo. Non è una critica, De Gregori per me è come Garibaldi, vorrei avere un cinquantesimo della forza poetica che ha lui in Quattro cani o nella Donna cannone; ma oggi mi interessano anche quelli che iniziano, gente come Le luci della centrale elettrica, o anche i ragazzi dei talent, di cui potrei essere il padre». Per chi ha tifato a X Factor? Per Nevruz? «A lei piace Nevruz? Io quest’anno X Factor me lo sono perso. Ho suonato in America, sono rimasto molto al capezzale di mia mamma. Mi preoccupano questi ragazzi esposti così giovani al fallimento. Il successo degli artisti nasce dal fallimento; ma consumato in sale semivuote, non di fronte a milioni di persone». Sua madre se n’è andata pochi giorni fa... «È stata una sofferenza lunga cinque mesi. Nelle ultime settimane non ha più riaperto gli occhi. Si è addormentata. Ora sto vicino al mio babbo. Siamo andati a trovare la zia, che ha 85 anni, e ho scoperto storie familiari mai sentite. La vita di ogni famiglia italiana è un romanzo». La vostra com’è? «La zia, comunista, è l’unica sovversiva. Il babbo è un cattolico papalino. A 18 anni ha lasciato Cortona per il Vaticano, dove si è arruolato come gendarme. È andato in pensione come amministratore dei palazzi vaticani fuori le mura. Da ragazzino abitavo accanto a Emanuela Orlandi, i miei primi ricordi pubblici sono legati al Vaticano: l’estate dei tre papi; il corpo di Giovanni Paolo I con le scarpe rosse nuove; l’elezione di Wojtyla, che seguii da piazza San Pietro. E poi l’attentato, il babbo che telefona: "Non uscite di casa…". Fino a quel giorno, piazza San Pietro era stata il nostro cortile di giochi».
Cominciavano gli Anni 80, di cui nel libro esprime un giudizio positivo. Ma non sono anche gli anni dell’individualismo sfrenato?
«Io li ho vissuti come dj e li ricordo come fantastici: hip-hop, punk, rap, house, la musica elettronica. Mi sentivo il pioniere di queste cose, è stato allora che ho pensato di esistere. Era il tempo in cui Vasco rivoluzionava il linguaggio dei cantautori. Gli Anni 70 sono un falso mito. Serrande abbassate, morti di overdose pure tra i boyscout come me. Il mio capo squadriglia leggeva Lotta continua a messa: forse "viva tutto" nasce anche da lì. Ma erano anni tristi».
Siamo solo noi, Cosa ce ne frega a noi: più individualista di Vasco…
«Ma è l’individualismo buono, di provincia. La vera forza dell’Italia. Il ragazzo dell’Appennino che arriva con i jeans sopra le caviglie e cambia la storia della musica. Non è l’individualismo dei situazionisti alla Freccero, che si ponevano come gli unici intelligenti in un mondo di stupidi».
Nel suo libro non nomina mai Berlusconi. Perché?
«In un primo tempo non era così. Poi ho preferito evitare. Occuparsi di Berlusconi oggi è come sparare sulla Croce Rossa. Le pare che Berlusconi sia ancora nei radar?».
Sì. «È nei radar dei media. Ci rimarrà, come figura storica. Io però volevo rivolgermi ai ragazzi. A chi è adesso com’ero io vent’anni fa. Devo molto a chi mi ha dato consigli. E il consiglio che darei ai ragazzi è: il mondo è una figata; è pieno di cose fantastiche; sta a voi trovarle. Il mondo è come YouTube: un posto misero, se ti fermi ai filmati dove la gente cade e si fa male; un posto dove passare una settimana in estasi, se cerchi Pasolini, Ungaretti, Carmelo Bene, i poeti sudamericani». È così ottimista anche sull’Italia di oggi? «Il mio ottimismo è un atto di volontà. Ci lavoro su. I motivi per essere pessimisti sono evidenti. Poi decido di aprire un nuovo sito Internet, incontro un po’ di ragazzi, e scopro gente straordinaria, che non viene raccontata. Gente che si iscrive a fisica, non a scienze della comunicazione, che è un’assurdità fin dal nome. L’Italia è un paese ampio, vario. Il paese più ricco di differenze al mondo». Riusciremo a tenerlo insieme? «Sì, perché le differenze sono la nostra forza, è il nostro modo di essere uniti. Capisco il fascino che la Lega esercita sui giovani: perché al Nord la Lega è molto presente, mentre la sinistra sembra una cosa fatta da altri; e perché il mondo fa paura. Invece il mondo globale è straordinario, e l’immigrazione è una grande ricchezza. La cosa migliore che sia capitata all’Italia negli ultimi anni. Purché non vengano solo maschi soli, ma anche le loro donne. Come nelle migliori discoteche degli Anni 80, dove ti lasciavano entrare solo in coppia».
Le parodie di Checco Zalone non la irritano?
«No. Mi fanno pubblicità. Non può essere permaloso uno che ha scelto di chiamarsi Jovanotti». Le pesa quel nome? «Al contrario. Più divento grande, più mi sembra appropriato».
Aldo Cazzullo