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 2010  novembre 30 Martedì calendario

E NELLE CASE IL POTERE ERA UN’ARCHITETTURA IN TAVOLA

Il
fondatore della storia dell’arte, Johann Joachim Winckelmann, storceva il naso: «Cosette», commentava osservando il fiorire di tabacchiere, centrotavola, capricci d’oro e porcellana. Eppure, in quell’ansia di antico «casalingo» che pervadeva il Settecento, quella frenesia nell’addomesticare la grandiosità del Partenone o del Colosseo in preziose riproduzioni d’arredo, c’era poco di futile: era l’avanguardia di certa modernità.
L’esegesi non bastava più, nemmeno a tavola. Lo si vede nella sezione della mostra dedicata all’arredo: coppiere decorate con maestria, dessert (ornamenti da banchetto) che riproducono vestigia improvvisamente diventate familiari, fanciulli sinuosi e laocoonti che arrivano a ornare camini di case sontuose. Gli animali impagliati che scompaiono lasciando il posto a tortuose riproduzioni dell’arte classica. Eccessive? «Non saprei — commenta Alvar Gonzáles Palacios, grande studioso del periodo e curatore della prima monografica in Italia dedicata a Luigi Valadier — il kitsch è negli occhi di chi guarda. Parlerei di abilità di alcuni artisti». Molti gli italiani che, a metà del Settecento, intuirono un fatto: affiorava un senso di possesso del passato. O, meglio: del mito.
Le esedre colonnate nel dessert (o deser) di Carlo IV, opera di Luigi Valadier, per esempio: il pregio era sì nella straordinaria manifattura, ma c’era altro. C’era il messaggio della vestigia senza tempo, quel concetto di «mai morto» che all’epoca affascinava vedutisti, poeti, romanzieri. Nella Baccante con cembali (manifattura di Giovanni Volpato), si cercava «L’eterno femminino (che) ci attira in alto», come scrisse Goethe, simbolo di quella generazione che del Gran Tour fece poesia. Un salto rispetto al secolo precedente, che pur si era nutrito di saliere d’autore, del genio del Bernini.
Luigi Valadier, per esempio. Figlio di francesi, genio dell’arte orafa, coraggioso interprete di una sensibilità capace di accostare bighe romane e profili greci. «Le sue opere erano richieste da mezzo mondo — dice Gonzáles Palacios
— da facoltosi inglesi, dalla nobiltà italiana. Perché è importante precisare un dettaglio: questi manufatti non finivano certo nella casa del cittadino medio. Erano prerogativa di principi e papi». Pontefici come Pio VI, che incaricò Valadier di montare le gemme pontificie, cammei di epoca imperiale rinvenuti nelle catacombe romane. O l’ambasciatore di Malta a Roma, il Bali de Breteuil, nel 1778. Era una committenza colta e facoltosa che poteva spendere e voleva più del classico souvenir d’Italie.
«Uno status symbol, anche se odio questa parola — dice lo studioso — un segno di appartenenza a un genere particolare, quello della gente che tiene le file dei poteri». Fu così che tabacchiere e dessert, coppe e vasi di porcellana, servirono a suggellare rapporti diplomatici (fiumi di candido biscuit inondarono le cancellerie papali, per dire). Avere in casa i Dioscuri bronzei di Francesco Righetti significava essere ricchi ma anche cosmopoliti. La nobiltà prussiana come quella spagnola commissionava le stesse tabacchiere. La riscoperta del passato aveva creato un nuovo sentire, meno provinciale e più coraggioso, quasi un osare al di là dei canoni. Senza temere nemmeno l’assurdo.
L’assurdo di certe forme, l’esagerazione di certi centrotavola. Gonzáles Palacios parla di semplice gusto dell’epoca, fusione di stili. Ma nei camini decorati (se ne occupò anche lo stesso Piranesi), nei manufatti di Meissen, di Sevres, di Doccia (in mostra a Roma ci sono pregiati esemplari) c’è qualcosa d’altro. C’è lo slancio di un arredo domestico che non è più soltanto la corsa alla bellezza o al materiale più raffinato. È passione, inventiva, scherzo. Opulenza tragica. Capriccio, si potrebbe dire voglia di grandiosità, come suggeriva una città disseminata di rovine. Le rivoluzioni verranno dopo. Adesso si può ancora giocare con porcellane e biscuit, marmi colorati rari, con bronzi patinati o dorati e ancora con materiali più costosi come l’ambra, l’argento, gli smalti.
Luigi Valadier morirà suicida nel Tevere, forse travolto dai debiti. Ma lui e gli altri, non lasceranno solo coppe con cariatidi o oliere ornate da sacerdotesse. Lasceranno una nuova sensibilità nella decorazione della casa, l’ambizione a fare del focolare un mondo.
Roberta Scorranese