Massimo Piattelli Palmarini, Corriere della Sera 30/11/2010, 30 novembre 2010
LA MOLECOLA CHE GOVERNA I GENI
Non passa settimana senza che la principali riviste scientifiche pubblichino qualche scoperta sull’epigenetica subito ripresa dai giornali di larga diffusione. La trasmissione di caratteri ereditari non (il «non» va sottolineato) dovuti a istruzioni contenute nella sequenza del Dna fa un certo scalpore. Si va, in un certo senso «oltre» e «sopra» (in greco antico «epi») i geni, da cui il termine epigenetica. Il rischio di esagerare è forte. «Vittoria sui geni» titola la copertina di un recente numero del settimanale tedesco «Der Spiegel», aggiungendo che l’epigenetica può farci «più intelligenti, più sani e più felici».
Meno sensazionalista è il «New York Times», che esamina plausibili conseguenze sull’ereditarietà, la diagnosi e la possibile cura delle malattie psichiatriche. Il quotidiano inglese «The Guardian» nel marzo scorso parlava di rivoluzione epigenetica e suggeriva che il quadro classico dell’evoluzione neo-Darwiniana centrato sulla selezione naturale va rivisto.
Florian Maderspacher, redattore capo di «Current Biology» insorge contro queste esagerazioni e agita lo spettro di un ritorno dell’infame biologo stalinista Trofim Denisovich Lyssenko, nemico dei genetisti sovietici, che faceva tranquillamente spedire nel Gulag. Basandosi su un processo da lui chiamato «vernalizzazione», cioè un utile condizionamento del grano a climi rigidi, che sarebbe poi passato nel seme e trasmesso nelle coltivazioni successive, Lyssenko modificò l’agricoltura dell’Unione Sovietica con esiti ancora oggi discussi.
Era implacabile sostenitore dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, una tesi particolarmente cara alla dottrina marxista in veste sovietica, in quanto prometteva di migliorare stabilmente l ’ umanità attraverso l’educazione e lo stile di vita del socialismo. Era un sinistro figuro, ma per certo si era imbattuto in trasformazioni epigenetiche delle piante, qualcosa che oggi viene studiata produttivamente e con ben altri metodi.
Assai meno mortifero e più spesso agitato è il timore di un ritorno del Lamarckismo, cioè della tesi (dovuta al biologo ed evoluzionista francese Jean - Baptiste de Lamarck, 1744-1829) che l’evoluzione proceda per un cumulo di tratti acquisiti in vita dagli antenati e poi trasmessi ai discendenti. Vediamo di mettere un po’ d’ordine in queste contrastanti notizie, evitando sia il trionfalismo che lo svilimento dell’epigenetica.
I cosiddetti marcatori epigenetici sono piccole molecole che si fissano mediante un normale legame chimico al Dna o alle proteine attorno alle quali il Dna si avvoltola nel nucleo delle cellule. Il Dna e tali proteine, chiamate istoni, sono molecole immense, nelle quali i marcatori epigenetici si inseriscono, un po’ come un sassolino in uno pneumatico di un autobus.
Ma, per piccolo che sia, il sassolino può far un po’ sobbalzare l’autobus ad ogni giro di ruota. Ebbene, questi piccoli gruppi chimici (detti in gergo gruppi metilici, acetilici, fosforilici, e un paio di altri) possono far traballare l’espressione dei geni ad ogni divisione della cellula. In particolare, a seconda di dove vanno a piazzarsi, possono mettere un gene a nudo, favorendone l’attivazione, o all’opposto schermarlo fisicamente, bloccandolo. La presenza dell’uno o dell’altro marcatore su questa o su quella posizione, in questo o quel gene (o nell’istone) è il risultato congiunto di interazioni con l’ambiente e della struttura chimica del gene (o dell’istone). Ora viene il bello.
È ipotizzabile che, insieme ai geni, la progenie possa ereditare anche questi marcatori, ereditando, quindi, un tipo di regolazione dell’espressione dei geni stessi, mediante un meccanismo, appunto, epigenetico. Detto un po’ sommariamente, l’ipotesi ancora da confermare è che non si ereditano solo dei geni spogli, ma dei geni corredati di marcatori epigenetici. In gergo, si erediterebbe un epi-genoma, non solo un genoma.
Dati inoppugnabili dicono che uno stesso gene, se ereditato dal padre, può avere una marcatura (imprinting) paterna, diversa da quella materna, con effetti diversi sui tratti biologici che questi geni contribuiscono a formare nella prole. Trattandosi di modifiche provenienti dall’ambiente cui è stato esposto l’uno o l’altro genitore, o perfino uno dei nonni, si ha una genuina trasmissione di caratteri acquisiti, senza alterazioni nella sequenza del Dna dei geni.
I meccanismi attraverso i quali avviene questo trasferimento da una generazione all’altra sono per ora ignoti e le ricerche fervono. La trasmissione in quanto tale è stata ben stabilita recentemente almeno in un numero di casi specifici ben accertati in specie distinte. La lista di tali casi, in continuo aumento, spazia dal colore del manto, l’appetito e la suscettibilità alle malattie in topi geneticamente identici, ma le cui madri sono state nutrite durante la gestazione con sostanze diversamente ricche in gruppi metilici, a reazioni di stress in pulcini la cui madre è stata sottoposta a shock, benché i pulcini stessi non siano stati sottoposti ad alcuno shock.
Nell’uomo, per adesso almeno, i candidati probabili, ma ancora non certi, sono collegati alla dieta, ricca o all’opposto da fame, cui sono stati soggetti i nonni, con effetti opposti tra le nonne e i nonni, rispettivamente al momento della formazione dell’ovulo (ancora nel ventre della loro madre) e degli spermatozoi (in fase di pre-pubertà). In Olanda, le nipotine delle nonne che soffersero la fame nella tremenda carestia dell’inverno di guerra 1944-1945 partoriscono oggi neonati più piccoli e gracili della norma, benché esse stesse non abbiano mai conosciuto la fame.
È veramente il ritorno del Lamarckismo, come alcuni sostengono gongolando e altri paventano? Non proprio. Innanzitutto perché l’effetto delle condizioni ambientali sui tratti epigeneticamente trasmessi è quasi sempre molto complesso e poco intuitivo. Per esempio, sembra proteggere dal diabete e dai disturbi cardiaci avere avuto un nonno che soffriva la fame da adolescente. Strano, no?
Non è certo la storia Lamarckiana tipica della giraffa cui si allunga progressivamente il collo, generazione dopo generazione, per poter mangiare i frutti degli alberi più alti. Inoltre, la trasmissione dei caratteri epigenetici, a differenza di quelli genuinamente genetici, spesso non è stabile. Infine, con buona pace di Lamarck, non c’è connessione stabilita, almeno per ora, tra trasmissione epigenetica e formazione di specie nuove. La scienza dell’epigenetica è ancora solo agli inizi, ma il dispiego di forze è imponente. Ne vedremo certo delle belle.
Massimo Piattelli Palmarini