Dario Di Vico, Corriere della Sera 30/11/2010, 30 novembre 2010
I DISTRETTI DEL LOMBARDO-VENETO AL (LENTO) PASSAGGIO IN INDIA - A
Legnago, comune con sindaco leghista in provincia di Verona, in un vecchio zuccherificio esiste addirittura l’Indo Italia Enterprises Center che organizza incontri, seminari e consulenze per fare business nella terra del Gange. L’obiettivo (ambiziosissimo) è di portare nel giro di due anni la bella cifra di cento aziende venete in India e addirittura di riprodurre in loco il modello dell’industrializzazione diffusa tipico del Nord Est. Se i veronesi paiono gettare il cuore oltre l’ostacolo, va detto che i dati Istat sembrano incoraggiarli. Nei primi nove mesi del 2010 le esportazioni verso New Delhi hanno fatto registrare un balzo in avanti del 22%, nettamente superiore alle performance globali italiane che si sono fermate a poco più del 14%. I distretti industriali sono stati gli apripista: nei primi 6 mesi (ultimo dato disponibile) sono cresciuti del 47% contro il 22% dell’intero manifatturiero. Le zone che si sono distinte di più sono Varese con la sua meccanica strumentale, le industrie della concia di Arzignano e Santa Croce sull’Arno, la metalmeccanica di Lecco, le macchine per la filiera della pelle di Vigevano e quelle per il food di Parma, l’oreficeria di Arezzo, il marmo di Carrara e il legno-arredo della Brianza. Da solo, comunque, il Lombardo-veneto determina il 60% del fatturato distrettuale in India e come «premio» nei giorni scorsi la maggiore compagnia aerea indiana, la Jet Airlines, ha annunciato la nascita del primo collegamento giornaliero New Delhi-Malpensa. Analizzando in profondità i dati, emerge come per ora si vendano per lo più beni strumentali e intermedi (dalle perle ai prodotti in metallo), mentre per il successo dei prodotti finiti, del made in Italy di largo consumo e di eccellenza, bisognerà attendere un nuovo step dello sviluppo del mercato interno indiano.
Proprio alle prospettive di export dei distretti italiani in India è dedicato un recentissimo studio del Servizio Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo. Che se da una parte mette in luce gli spazi potenzialmente aperti, dall’altro invita alla prudenza. «Sfruttare le opportunità non sarà facile e richiederà un potenziamento della fase commerciale. La nostra quota di mercato è il 2,1% contro il 6,3% dei tedeschi, che per ora ci battono persino nei mobili. Di conseguenza se vogliamo tenere il loro passo si rendono necessari investimenti diretti in loco» spiega Fabrizio Guelpa, responsabile Industry & Banking del Servizio studi. E infatti l’ultimo dato elaborato dal Politecnico di Milano e riferito al 2009 segnalava circa 300 imprese indiane partecipate da partner italiani mentre in Cina siamo già a quota 1.350. C’è tanto, dunque, da fare.
Ogni Paese europeo ovviamente cerca di sfruttare al meglio le proprie carte. La Francia, ad esempio, si è fatta largo con la vendita di veicoli per il trasporto aereo trainata da una domanda interna di mobilità in grande crescita. E del resto la grande azienda italiana maggiormente presente è la Piaggio, che propone al mercato indiano veicoli commerciali con un timing perfetto rispetto sia alla necessità di crescita del mercato interno sia alla carenza di infrastrutture moderne. Se nel 2003 c’era un solo stabilimento Piaggio in India che fatturava 75 milioni di euro, produceva circa 50 mila Ape e dava lavoro a meno di 900 persone, oggi i veicoli prodotti sono 220 mila, il fatturato 385 milioni e gli addetti superano le 2.500 unità. E visto che, come sottolinea Roberto Colaninno «in India ci sono 800 milioni di persone con meno di 35 anni», la Piaggio costruirà un impianto per produrre la mitica Vespa. Se la importasse da Pontedera, dovrebbe infatti pagarci su il 90% di dazio.
Il massiccio impegno dell’azienda toscana in India ha determinato un parallelo coinvolgimento delle Pmi dell’indotto Piaggio? «Qualcuno ci ha seguito ed è rimasto soddisfatto — risponde Colaninno —. Ma le piccole e medie aziende che hanno accettato di scommettere sull’India lo hanno fatto più per un effetto simpatia che per una forma di stretta dipendenza da noi». Il patron della Piaggio sostiene anche di aver trovato nel Paese dei Gandhi un livello avanzato di cultura industriale. «Ho lavorato sempre in perfetto agio sia con i sindacati sia con il territorio. E lo stabilimento che abbiamo a 300 chilometri da Mumbai per ordine, pulizia, efficienza e qualità della manutenzione non ha niente da invidiare a un analogo impianto svedese o finlandese».
Al di là delle storie aziendali di successo l’India appare agli occhi degli economisti di Intesa Sanpaolo un Paese più per passisti che per velocisti. Più per grandi che per piccoli. Il giudizio degli imprenditori e dei manager italiani che operano in India alla fine è lo stesso e suona inevitabilmente per i connazionali come un invito alla santa pazienza. Perché se è vero che l’Italia tenta disperatamente di uscire dalla crisi guardando con entusiasmo ai Paesi emergenti, è altrettanto vero che in India prima di raccogliere bisogna seminare abbondantemente e tra le due fasi possono passare anche diversi anni. Guai, quindi, a stabilire un parallelo meccanico tra Cina e India. A Pechino e Shanghai tutto gira più velocemente. «Ci sono almeno dieci anni di differenza nello sviluppo e gli indiani essendo una democrazia hanno un processo decisionale molto più lungo» spiega Paolo Ciarlariello, country manager di Luxottica. Aggiunge Gildo Zegna, amministratore delegato del gruppo biellese largamente presente in entrambi i Paesi: «In Cina è quasi tutto orientato al business, mentre l’indiano è più cauto. La cultura, le tradizioni, la religione lo spingono in questa direzione». A dimostrazione di quanto la pazienza sia decisiva per sfondare a New Delhi o Mumbai c’è la constatazione che chi è arrivato dopo — fosse anche una multinazionale aggressiva — non è riuscito a scalzare i rivali. Vale per la Coca Cola che non ha mai rimontato la Pepsi o la Procter & Gamble costretta a rincorrere l’Unilever. L’India continua a crescere al ritmo dell’8% ma nella prima metà del 2010 c’è stato un forte incremento degli investimenti (+13%) mentre la crescita dei consumi privati è stato tutto sommato bassa (+3,2%). Così non c’è da stupirsi se il vino italiano sia difficile da trovare e se la ristorazione italiana sia in mano a imprenditori locali. «Per quanto gli indiani siano più eleganti dei cinesi, le élite cosmopolite spesso fanno i loro acquisti a Londra e non in patria» annota Luciano Benetton, gran frequentatore dell’India dove il gruppo trevigiano vanta presenza storica e ottime performance. In virtù, anche, dell’idea che il made in Italy non debba servire solo pochi ma debba essere democratico, alla portata di molti. Anche i buoni risultati di Luxottica sono stati costruiti su un’idea realistica del potere d’acquisto della middle class indiana. Gli occhiali Rayban vengono venduti allo stesso prezzo dell’Italia, non caricando quindi il dazio sul cliente finale. Una politica prudente del prezzo non ha impedito, come racconta Ciarlariello, che gli stessi Rayban «diventassero, al pari delle auto Mercedes e della penna Montblanc, oggetti di lusso e di culto per le persone di successo». Ma stiamo parlando di un’accezione della parola «lusso» che certo non è la stessa in auge in via Montenapoleone.
In definitiva il quesito a cui sono legati i destini del made in Italy, sia delle grandi multinazionali sia dei distretti, è proprio questo. A che ritmo avremo, quello che Guelpa definisce come «il progressivo ampliamento delle classi più abbienti del Paese che molto verosimilmente si riveleranno grandi consumatori di prodotti del lusso e, più in particolare, delle produzioni di qualità italiane»? I ricchi secondo Colaninno oggi non sono più di 30 milioni in un Paese che comunque agli antipodi continua a contare la cifra-monstre di 950 milioni di poveri.
Gildo Zegna ammette con onestà che il nostro gruppo «sta faticando nel cercare la chiave giusta di entrata in India», anche perché oggi la quota di quanti sono in grado di apprezzare il made in Italy di eccellenza viene stimata in sole 200 mila persone. «È vero che parliamo di un target che apprezza l’italianità, ma va trattato con un’attenzione e una tempistica diversa anche solo rispetto alla Cina». Il clima ha le sue differenze e per chi vende capi di abbigliamento non è un dettaglio. Le barriere burocratiche «invisibili», come le chiama Zegna, sono robuste e l’assenza di infrastrutture è tale che «per andare in auto da un lato all’altro di Mumbai bisogna mettere in conto dalle due alle tre ore». Guai quindi a pensare che basti agitare la bandiera dell’Italian style per avere folla nei negozi, ci vuole applicazione e pazienza. E non stancarsi di sperimentare formule nuove.
Dario Di Vico