Sergio Romano, Corriere della Sera 30/11/2010, 30 novembre 2010
LA DIPLOMAZIA SEGRETA TRA GUERRE E ALCOVE
Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti durante la Grande Guerra, sostenne che gli accordi internazionali devono essere negoziati alla luce del sole. Poco meno di settant’anni dopo, quando il New York Times cominciò a pubblicare un numero considerevole di documenti segreti sulla guerra del Vietnam, fotocopiati negli archivi del Pentagono, la Casa Bianca di Richard Nixon ottenne da un tribunale federale il divieto di pubblicazione. Ma due settimane dopo, il 30 giugno 1971, la Corte suprema decise che il potere esecutivo non era riuscito a dimostrare la pericolosità della pubblicazione dei documenti per la sicurezza dello Stato. La sentenza non dava ai giornali una totale e illimitata licenza, ma ribadiva che in quel particolare contesto il primo emendamento della Costituzione americana contava più delle preoccupazioni dell’esecutivo.
La open diplomacy di Wilson fu soltanto una nobile, velleitaria utopia, e la sentenza della Corte suprema nel caso dei Pentagon Papers non ha impedito a tutte le amministrazioni presidenziali americane, da Nixon a Obama, di praticare le arti della diplomazia segreta. Ma Julian Assange, responsabile di Wikileaks, sosterrà certamente in tribunale, se sarà chiamato in giudizio, che la sua iniziativa è ispirata alla migliore cultura politica americana. Avrebbe ragione?
Fra il grande scandalo del 1971 e il caso di questi giorni esistono alcune importanti differenze. All’origine dei Pentagon Papers vi fu, nel 1967, la decisione di Robert McNamara, allora segretario alla Difesa, di riassumere in una sorta di libro bianco la storia documentata del conflitto vietnamita. Ne era in gran parte responsabile e voleva forse regolare i conti con la propria coscienza lasciando agli atti della storia una orazione pro domo sua. Nominò una commissione che raccolse, per compilare, l’opera — 4000 documenti segreti — e li pubblicò in 47 volumi destinati a una dozzina di persone. Un ex collaboratore del dipartimento della Difesa, Daniel Ellsberg, conosceva il presidente della Commissione e fu autorizzato a consultarli.
Ma la lettura di quelle carte lo convinse che la guerra era stata un terribile errore e che la presidenza di Lyndon Johnson, forse ancora più della presidenza Nixon, si era resa responsabile di stragi e rappresaglie di cui gli americani dovevano prendere coscienza. Con l’aiuto di un amico, Anthony Russo, fotografò i documenti più compromettenti e li dette al New York Times. La sua decisione creò un caso e venne diversamente giudicata, ma non fu possibile negare che vi fosse in Daniel Ellsberg e nel suo amico una forte motivazione civile.
Non credo che di Julian Assange possa dirsi altrettanto. Mi sembra che prevalga in questo caso il desiderio di trascinare il pubblico, attraverso il buco della serratura, nelle stanze del potere, di compiacere la naturale diffidenza dell’opinione pubblica per lo Stato e le sue macchinazioni. È certamente giornalismo, ma della specie che andava di moda nella peggiore stampa francese dell’Ottocento e in quello che fu definito il «giornalismo giallo» americano agli inizi del Novecento. Può essere comunque utile per una migliore informazione della pubblica opinione? Molte «rivelazioni» ci dicono sostanzialmente ciò che già sapevamo da molto tempo.
È interessante apprendere, ad esempio, che l’Iran, per il re saudita, è un serpente di cui occorre tagliare la testa. Ma non avevamo bisogno di Wikileaks per sapere che i regimi arabo-sunniti del Golfo sono terribilmente preoccupati dall’irresistibile ascesa del potere iraniano nella loro regione. È divertente leggere dispacci diplomatici di ambasciatori che descrivono i vizi, i capricci e le debolezze del leader presso il quale sono accreditati. Ma lo hanno sempre fatto. Quando i re esercitavano un potere pressoché assoluto, ma erano sensibili all’influenza delle loro amanti, gli ambasciatori della Repubblica di Venezia trasmettevano alla Serenissima dispacci in cui la vita amorosa di Luigi XVI e le sue predilezioni sessuali erano trattate come un affare di Stato.
Quando, nel 1899, il presidente Félix Faure morì durante un amplesso tra le braccia della sua amante, gli ambasciatori stranieri a Parigi scrissero alle loro capitali lettere divertenti e pettegole con particolari degni della migliore stampa erotica. Oggi, negli Stati moderni, esistono alcuni re pro tempore che commettono spesso l’errore di mescolare spregiudicatamente la vita pubblica e la vita privata. Che cosa dovrebbe fare un ambasciatore se non mettere il proprio presidente del Consiglio in condizione di conoscere il profilo caratteriale della persona con cui dovrà discutere problemi di grande importanza?
È certamente vero tuttavia che questa attività diplomatica, a giudicare dai documenti di Wikileaks, è diventata più spregiudicata di quanto fosse in passato. Ma le ragioni sono forse più tecnologiche che culturali. La distanza e la comunicazione cartacea limitavano il numero dei rapporti che un ambasciatore inviava al suo ministro. Oggi la fibra ottica può trasmettere milioni di bit in brevissimo tempo. Il mezzo tecnico ha avuto l’effetto di aumentare enormemente la quantità dell’informazione, e il potenziale quantitativo della rete ha inevitabilmente ridotto i tempi di riflessione che dovrebbero precedere la redazione di un rapporto. Negli Stati Uniti, dove l’innovazione e la rapida applicazione delle nuove tecnologie sono virtù (e vizi) nazionali, la rete elettronica del dipartimento di Stato si è enormemente perfezionata e dilatata, ma è diventata al tempo stesso molto più vulnerabile. Ellsberg e Russo hanno fotocopiato documenti di carta. L’ignota talpa del dipartimento di Stato si è servita di password trafugate e di un massiccio downloading. Gli americani correranno ai ripari innalzando la soglie di sicurezza delle loro comunicazioni. Ma spero che non chiedano ai loro ambasciatori di essere più prudenti. Un rapporto diplomatico troppo cauto e circospetto è quasi sempre inutile e noioso. L’ipocrisia e l’opportunismo, nelle comunicazioni interne, non hanno mai giovato alla politica estera di uno Stato.
Questo non toglie, beninteso, che nelle fughe di Wikileaks possano esservi informazioni molto interessanti su operazioni segrete, intenzioni inconfessabili e prove di doppiezza politica. Ma rischiano di annegare in un oceano di notizie meno importanti e di perdere una buona parte della loro carica esplosiva. Se il regista delle fughe si fosse proposto di illuminare un particolare aspetto della politica estera americana (come accadde nel caso delle indiscrezioni concernenti l’Afghanistan) l’operazione avrebbe avuto un significato politico e morale. Così è soltanto uno spettacolo doppiamente imbarazzante: per la diplomazia americana, in primo luogo, ma anche per il lettore trasformato in voyeur. Julian Assange, evidentemente, non è Daniel Ellsberg.
Sergio Romano