30 novembre 2010
All´inizio dell´Offensiva delle Ardenne, nel dicembre del 1944, un bombardiere americano fu abbattuto da alcuni caccia tedeschi e precipitò su un pascolo di mucche
All´inizio dell´Offensiva delle Ardenne, nel dicembre del 1944, un bombardiere americano fu abbattuto da alcuni caccia tedeschi e precipitò su un pascolo di mucche. Il corpo del pilota non fu mai trovato. A distanza di 65 anni, in un giorno di fine estate, una squadra del Dipartimento della Difesa formato da 10 elementi sta ispezionando quello stesso pascolo, tra cumuli di fango e terriccio appena scavato, alla ricerca del pilota disperso. Il gruppo era già riuscito a portare alla luce frammenti di un paracadute e un brandello di un guanto di pelle, quando uno degli antropologi forensi della squadra, Allysha Powanda Winburn, si è imbattuta in un indizio cruciale per risolvere il mistero: un frammento di quelli che lei ha definito «possibili resti umani»: ossa. Ma il vero mistero - quanto meno agli occhi di Hermann Reuter, agricoltore oggi settantasettenne, che a 13 anni assistette allo schianto del bombardiere - è proprio quel gruppetto di americani che si sono presentati nei suoi campi, accanto alla sua casa, in cerca di quel pilota scomparso 65 anni fa. Si chiede: «Perché proprio adesso, dopo così tanto tempo?»
Il fatto è che mentre circa 200mila soldati americani combattono ancora in Iraq e in Afghanistan, un´unità dell´esercito di cui si sa molto poco è impegnata nello sforzo titanico e talvolta donchisciottesco di cercare di scoprire che fine hanno fatto ben 84.000 americani tuttora dispersi nelle guerre precedenti. La maggior parte delle loro ricerche è concentrata sul Vietnam, ma per le pressioni delle famiglie da un paio di anni le alte sfere dell´apparato militare hanno deciso di dedicare nuova attenzione alla stragrande maggioranza dei soldati dispersi - circa 74.000 - in Europa e nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale. L´impegno fa parte di quella cultura militare del "riportare tutti a casa", a prescindere da quanto difficile possa essere l´impresa. «Vogliamo utilizzare al meglio le risorse che abbiamo, in termini di soldi e di personale» dice Johnie E. Webb, vice comandante di questa unità costituita da 400 persone e denominata Joint Pow/Mia Accounting Command, con sede nelle Hawaii. E aggiunge: «Questo è il massimo che possiamo fare, almeno fino a quando qualcuno non ci dirà di poterci dare più risorse per fare ancora meglio».
La rinnovata attenzione per la ricerca dei soldati dispersi nella Seconda guerra mondiale giunge dopo anni di ricerche dedicate a militari mai più tornati a casa negli anni ‘60 e ‘70 e dispersi nelle giungle del sudest asiatico. Lisa Phillips, presidente dell´associazione World War II Families for the Return of the Missing, fondata quattro anni fa, spiega: «Per il Vietnam hanno esercitato pressioni in tanti. Ma la generazione precedente non sapeva a chi dovesse rivolgersi».
Oggi, però, il tempo per le ricerche in Europa è agli sgoccioli, poiché molti testimoni oculari e molti storici locali - importantissimi per aiutare a individuare i luoghi esatti degli schianti aerei - stanno a loro volta scomparendo o sono già scomparsi. Inoltre Washington al momento ha ben altre preoccupazioni e il Pentagono ha dedicato una percentuale assai esigua del suo budget - 55 milioni di dollari su un totale di 500mila miliardi - per questo tipo di ricerche. Benché ogni anno la squadra riesca a individuare una settantina di soldati dispersi, di questo passo saranno necessari 500 anni per trovare tutti i 35.000 uomini che il Pentagono classifica come "teoricamente recuperabili". Molte migliaia di altri sono andati dispersi in mare. Ma per le squadre del Dipartimento della Difesa, formate da antropologi, veterani militari delle guerre in Iraq e in Afghanistan, il significato della missione non sta tanto nei numeri quanto nelle singole vite. Andrew Tyrrell, un altro antropologo al lavoro nel pascolo tedesco, esemplifica: «In effetti uno potrebbe chiedersi perché preoccuparci quando sappiamo che non riusciremo mai ad arrivare a individuarli tutti. Ma il punto è proprio questo, non conta finire: ciò che è davvero importante è che le loro storie siano ricordate». La squadra è formata da elementi che hanno alle spalle parecchie missioni in Iraq e in Afghanistan, e in molti casi sono in attesa di tornarci. Dicono di aver sviluppato una sorta di affinità con quel pilota precipitato in questo pezzo di Europa nel dicembre di 65 anni fa, anche se non lo hanno mai conosciuto. Melissa Ova, capo squadra che ha combattuto in Iraq nel 2007, aggiunge: «È un po´ come se i membri di una famiglia tornassero a cercare i loro cari dispersi». E anche se spesso il lavoro sia lento e frustrante, secondo Ova ne vale in ogni caso la pena: «Per me è rassicurante sapere che se qualcosa dovesse capitarmi ci sarà sempre qualcuno che verrà a cercarmi».
(Copyright New York Times-La Repubblica.
Traduzione di Anna Bissanti)