Notizie tratte da: Olimpia Savio # Memorie # Treves Milano 1911., 30 novembre 2010
Notizie tratte da: Olimpia Savio, Memorie, Treves Milano 1911.Educazione della Savio tutta francese, dalle monache del Sacxré-Coeur
Notizie tratte da: Olimpia Savio, Memorie, Treves Milano 1911.
Educazione della Savio tutta francese, dalle monache del Sacxré-Coeur. «La borghesia ricca imitava il sistema dell’aristocrazia; quella meno agiata ricorreva a scuole di maestre secolari» [4]
«Mia madre stessa […] leggendo molto di notte, e nascondendo spesso i libri sotto le materassa, perché la madre sua, e la nonna, due sante donne, solevano ripeterle, che quand’ella avesse saputo leggere nei libri di devozione, ce n’era d’avanzo in fatto di letteratura e di scienza» [5]
«Il letterato faccia i libri, il sarto faccia gli abiti, il pittore i quadri, e il signore la faccia da signore – diceva mia nonna – non come Vittorio Alfieri, un apostata, un marchese, che fa pubblicamente il mestiere di poeta, “bauland” (abbaiando) “countra i re, e countra i preive. Senza dì, ca l’à tirà fora d’prinsipi e d’teorie… e cose da pere” [5]
«Quand’ero ai miei sedici anni [la Savio era del 1815 – ndr], Torino era come una famiglia ordinata con l’etichetta spagnuola. In fatto di divertimenti, c’era per le nostre madri:
1° Il Teatro Regio [in nota notizie sui periodici Le Scintille e altri a cui collaborò la Savio scrivendo molto sul Regio], coi palchi dati dal sovrano, e colle sue gerarchie, cioè al 1°, 3°, 4° ordine l’aristocrazia semplicemente; al 2°, i ministri, ambasciatori, la regina Maria Cristina, col suo enorme turbante di velo bianco, e il re Carlo Felice, che faceva in palco e allo scoperto il suo petit souper composto specialmente di grissini impastati con polpa di trote; al 5° la borghesia, le mogli dei magistrati, dei generali, ecc., che non erano titolate.
2° La commedia al d’Angennes, con la Marchionni, Vestri e la Compagnia Regia, tutti attori scelti.
3° Qualche ballo, e in Quaresima gli “appartamenti a Corte”, dove in gran toeletta si passavano tre o quattro ore guardandosi a vicenda, sin che, uscendo la Corte, si era padroni di andarsene.
4° Il “baciamano al nuovo anno, a cui afferravansi, come a somma cosa, gli uomini in abito di Corte, le donne scollate e in manto. La plebe, compresa la gente a modo senza titolo o grado, non ammessa, bene inteso, al gaudio di baciare le regie dita, stava affollata in piazza; o per favore pigiata nel gran salone degli svizzeri, per vedervi almeno di passeggio gli eletti» [8]
Descrizione delle feste per bambini, della processione del Corpus Domini, della vestizione delle monache in Santa Croce, del falò di San Giovanni in piazza Castello, il Giovedì santi (il Re e la Regina portavano il Signore nel Sepolcro con divieto di transito, all’ora dei vesperi, alle carrozze che non fossero di Corte. «Carlo Alberto pel primo usò di visitare le sette chiese di rigore a piedi, seguito da un corteggio imponente di cortigiani e ufficiali, «Ed io fu presente alla prima manifestazione liberale, foriera alla serie di quelle che dovevano succedere dal ’48 in poi, quando fu fischiato Monsignor Fransoni, inviso al popolo per le idee retrive, mentre, in abiti pontificali, da San Giovanni, benedicendo la folla con un suo speciale gesto rude, scendeva alla carrozza di gala, seguito da tutti i maggiorenti del clero» [8-11]
«I Torinesi avevano abitudini diverse dalle attuali. La domenica e le altre feste comandate, che erano molte, quanto c’era di meglio in città usciva dalle messe di mezzogiorno, e si riuniva a passeggio sotto i portici di Po dal lato del Caffè Fiorio. Ivi tutte le spose dell’annata, tutte le merveilleuses della moda, ivi le aristocrazie, fin quella della scienza, e il popolo endimanché si toccavano col gomito, unico punto di contatto ammesso allora tra una casta e l’altra. Al dopopranzo, chi aveva carrozza andava su e giù per il Viale del Re, perché la Piazza Carlo Felice era ancora seminata a grano. Chi non aveva equipaggio (di carrozze pubbliche non c’erano che certi fiacres, monumentali, informi, comici a vedersi) stava in casa, o pigliava a nolo una sedia sui Ripari, non essendo buon genere per la gente ammodo camminare con le proprie gambe, in quel giorno in cui preponderava la plebe. Ma nei sei altri giorni era un elegante ritrovo dai due lati delle corde cariche di panni, più o meno poetici, che colà stavano asciugando: le lavandaie pagavano un tanto per quel sito, dove non v’era pericolo di polvere sollevata da cavalli» [11-12]
Descrizione dei Ripari «su in cima agli antichi spalti» [12-13]
Il Viale del Re pieno di platani [13]
Festa in onore della principessa Maria Cristina [ultima figlia di Vittorio Emanuele I e di Maria Teresa d’Asburgo d’Este, futura madre di Francesco II - Franceschiello,] che andava sposa a Ferdinando II re di Napoli. Descrizione della medesima in [14] e rapidamente delle sue tre sorelle. «La Regina Madre, Maria Teresa d’Austria, donna di forte animo, ma poco amata per l’alterigia e l’avversione alle libertà politiche. Era aperta nemica di Carlo Alberto, dicendolo: “una testa brusà”, e non nominava mai Cesare Balbo che con l’epiteto: “d’ coul strasson” (di quello straccione)» [14].
L’agricoltura, secondo il suocero della Savio, «l’arte di rovinarsi con passione» [16]
Il suocero «amico e vecchio consigliere del conte di Cavour, la cui tenuta di Leri confinava con quella del Torrone, di mio suocero, questi lo consigliava in tutte le innkvazioni agrarie, ed a lui è dovuta – come è fama in quelle terre e nella famiglia nostra – la prima idea del grandioso canale, concretata poi dall’ing. Noè sotto l’impulso del grande uomo di Stato, di cui porta il nome (Canale Cavour). Più di una volta, sedendo il giovane conte alla tavola nostra, udivamo discusse le novità agrarie da lui pure ideate, e sempre spinte con alacrità, anche quando, presidente die ministri, aveva sulle spalle il peso d’Italia. Un giorno, invitato da cavour, il conte De Benedetti, ministro di Francia, visitò Leri. Il domani, Cavour mi disse: “Indovini un po’ cosa fece maggior senso all’Alter Ego in Torino di Napoleone III?” Rimasi in forse, dicendo: “I dissodamenti? I drenaggi? Le macchine?”. “No, no – riprese con aspetto beato – nulla di tutto ciò, ma l’avergli io saputo dire in una stalla, il nome ad una ad una delle quaranta mucche che essa contiene”» [17]
In Appendice al Capitolo I lo Stato di distribuzione dei palchi del Regio Teatro fatta d’ordine di S.M. nel carnovale del 1846-47 [18]
Tutta la storia del 1821, su cui la Savio ebbe notizie di prima mano, da 29 in poi. Epiteti carichi di disprezzo da parte della regina Maria Teresa verso Carlo Alberto e verso Cesare Balbo in [30].
Carattere di Adele di Bernstiel e di suo padre [37 e seguenti]
Ballo con Carlo Alberto (1840). «Adorna dei miei 24 anni in abito di broccato bianco con una cappellina da giardiniera fatta con ciocche di primule, e messa a capriccio su d’un orecchio, assistevo lieta ad una festa di corte […] io ballava col cav. Menabrea, allora appena capitano del Genio, quando i consueti colpi di mazza d’un ciambellano annunciarono che il Re Carlo Alberto faceva, com’era solito, il giro delle sale. Appena ebbi tempo di volgermi, dove egli aveva a passare, ch’ei venne a me, e mi chiese come trovassi quella festa. “Bellissima” risposi “Specialmente in questo punto”. “Lei deve aver ballato molto?” “No, Maestà, amo meglio i parlari, che le danze, amo meglio di osservare che di essere osservata”. “I suoi occhi devono vedere lontano e bene”. “Sì, ma non abbastanza, mentre è per poco se non ho mancato l’onore di questo colloquio colla Maestà del mio Re”. “Lei parla molto scioltamente l’italiano; fu ella in collegio a Firenze?”, “No, Maestà, non mi sono mai mossa dalla sua Torino”. “Mi fa senso, perché le nostre signore non parlano italiano che come lo parlano i francesi”. “Si è perché il francese è il linguaggio di corte; parli loro italiano come lei lo parla, Maestà, e tutti vi piglieranno amore (Ei lo parla molto bene, con tutte le grazie toscane)» [40-41]
«Lo rividi per l’ultima volta nel 1848, quando partiva per la guerra, la prima guerra dell’indipendenza d’Italia. Erano circa le 10 di sera: salito allora in carrozza chiusa, ma a sportelli aperti, s’avviava al passo su per la via di Po, allo stradale di Genova, scortato da una folla di giovani entusiastim che circondavano la carrozza con delle torcie a vento, e insieme al popolo affollato nel suo passaggio gridavano: “Viva il re! Viva l’Italia! E fuori i tedeschi!” Quelle torcie, quei cavalli a passo lento, il rispettoso e serio levarsi di cappello, che tutti facevano al passar di quel cocchio, avevano un certo che di funebre da parere, più che una lieta partenza, una mesta e solenne scena mortuaria. Ordinariamente pallido, Carlo Alberto era in quell’ora verde. Egli aveva subita allora in Palazzo una scena violenta. La moglie sua, Maria Teresa, che lo amava molto, ma che di politica non sapeva che quanto gliene dicevano i suoi cortigiani, avversi tutti al programma sinceramente liberale del re, aveva creduto a quanto le avevano detto: che una congiura d’italianissimi, canaglia traditrice, aveva deciso di pugnalare il re, appena fuori di palazzo, o in quella notte» [42]
La Savio assistette poi ai funerali di Carlo Alberto, alla cui salma furono tagliati barba e i lunghissimi capelli bianchi (raccolti poi per cura del Cibrario che li avrebbe recati alla vedova). In [42-43 nota 1]
L’epoca straordinaria del 1848 lasciò nella Savio impressioni incancellabili.
Torino nel 1848 presentò uno spettacolo unico nel secolo, l’esaltamento patriottico fu d’indole diffusiva così che dalle teste bionde alle bianche era una vertigine istessa. I pranzi, le poesie, le luminarie, le ovazioni, e le dimostrazioni di ogni fatta si succedevano senza tregua. Ed io, che occupavo allora un appartamento in via di Po, mi trovavo ai primi posti per godere di quegli spettacoli incessanti, e per dover provvedere a esporre i lumi, o a che le bandiere, o gli arazzi pendessero dai nostri balconi, come da tutti gli altri.
Più di una volta nelle pubbliche e frequenti adunanze liberali, che tenevansi al Vauxhall, e più tardi nel teatro Gerbino, udii la fluida parola di Gioberti, che scattava, ora abbagliante come folgore e ora tranquilla, serena come la verità e la giustizia, inculcando essere volontà dell’Altissimo i moderni moti, fatti provvidenziali, bandiera santa, su cui voleva inciso il motto: Patria e Dio. Fu in uno di quei comizi che udii il generale Ramorino, con voce tonante, vantarsi di bastare lui solo a levarci di collo la più abborrita delle signorie straniere, quella dell’Austria. "Datemi diecimila uomini, esclamava, e io vi dò il quadrilatero e i Tedeschi fuori d’Italia...
Mi ricordo di un pranzo d’artisti, a cui la Marchionni, la contessa Portula del Carretto, la contessa Masino, la Montignani, io con mio marito ed altre fummo invitate. Una deputazione di artisti, in giubba e guanti blandii, venne a prenderci e a farci scorta d’onore fino alla carrozza.
Una volta arrivate, fummo accompagnate nella sala, dove erano cento e più posti preparati:
quella sala era corsa per intero da una galleria, dove si era ammesso il colto pubblico e la inclita guarnigione. Dire gli entusiasmi, e i brindisi, gli evviva, i voti e le speranze di tutta quella folla sarebbe impossibile. Tutti, uomini e donne, mandarono un saluto ali’ Italia libera ed una, desiderio di cui l’effettuazione pareva allora imminente. Vinta dall’insistenza di tutti, perché facessi anch’io un voto all’Italia, mandai un saluto alla Venezia, martire nobilissima, e allora più tormentata che mai. Una salva rumorosa di voci e di battimani sorse unanime dai commensali e dagli spettatori; e quelle poche parole mi fu forza ripeterle con animo commosso ; quelle parole, ed altre della Colombini e della Portula, si stamparono insieme ad alcuni altri brindisi, tra cui uno del conte Chiavarina, in un volume che mi fu poscia presentato e che più tardi diedi alle fiamme, perché presa dalla vergogna di quei puerili e ciarlieri entusiasmi. Di codesti errori di esaltamento debbo confessare anche un altro, e si è d’ aver fatto una, poesia, dedicata ai giovani dell’Università, che erano venuti in deputazione a presentarmene alcune, fatte da loro sulla Costituzione, largita allora da Carlo Alberto. La commissione era composta da quattro studenti, fra i quali Costantino Nigra e il Luzzi, l’autore più tardi di tante belle armonie. Quella poesia, un orrore, fu portata alle stelle. Nigra, il giovine Ministro in germe, la declamò dalla cattedra in una sala dell’Università, e per cura degli studenti fu stampata.
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Quell’alito di indipendenza, in senso tutto italiano, penetrò nelle quiete abitudini domestiche.
Nel palazzo D’Azeglio, dalla marchesa Costanza, nata Alfieri di Sostegno (2), donna bellissima d’animo e di persona, venne convocato un gruppo di signore a scopo d’in tendersi, per adottare un
modo di vestire, che ci tornasse all’antico nostro carattere nazionale, affrancandoci dalle mode francesi, e tornando una buona volta alle signorili tuniche di velluto, ai larghi e piumati feltri medievali, che formavano la nera eleganza delle nostre bisnonne; vestiario quieto ed economico, perché al costo corrispondeva la durata.
Il figurino fatto a ciò, e ch’io conservo, è vestito di un’ ampia sottana di raso bianco con sopravi una veste di velluto nero accollata su di un collaretto bianco a crespe; il corpo aderisce alla lunghezza della vita, dilatandosi poscia in larghe falde, che s’arrestano a un palmo prima del finire della sottana, che forma una sottoveste. L’abito è aperto davanti e semi-aperto sul seno cosi da lasciare intravedere le candide pieghe e minute del camicino; le maniche sparate su d’una sottomanica pure di buon raso stretta ai polsi; i calzaretti di velluto nero; il cappello di feltro ad ala semilarga, rialzata alla sinistra, e con sopravi una bianca piuma di struzzo a larghi flabelli: un insieme avvenente i quanto mai e signorile.
Nell’estate, e a norma delle condizioni più o meno agiate, dovevano essere altre stoffe, ma la forma immutabile. Alle poche presenti, io tra quelle, l’idea piacque, ma dopo più maturo esame si ebbe a riflettere che per adottare uniforme un tal vestiario si voleva anzi tutto essere alte di statura, e bellissime, e, visto che in ciò l’unanimità mancava, deponemmo sospirando l’idea.
Questo ritorno al passato, in fatto di abiti, venne giudicato inammissibile, anche perché al concetto patriottico non corrispondeva Io spirito di uguaglianza, che è la caratteristica dell’età nostra; più assai che ad una uniformità relativa, un simile vestire ci portava a quelle evidenti specificazioni di casta, che allora appunto volevansi distrutte; senza dire che quelle’erano foggie da palafreni, da lettighe, da carrozzoni dorati, in urto quindi con le carrozzelle da nolo, le navi a vapore, e le ferrate, di fronte a cui, malgrado la differenza di ceto, si è tutti sulle stesse ruote, in balla della stessa macchina, e tutti pari nell’aspettare e nel non essere aspettati.
Conservo non pertanto, come prezioso termometro dell’epoca, quel figurino di moda, allora con tanta serietà discusso, perdio conferma la generosa utopia di assimilamento che allora predominava a segno, che la stessa idea, da noi signore trovata inammissibile, veniva invece tosto tradotta in pratica, non solo da un gruppo di giovani eleganti, tra cui Costantino Nigra, ma da un gruppo di gravi uomini, come Sebastiano Tecchio, Siotto Pintor, ecc., i quali vestirono il lucco ed il cappello piumato dei tempi di Dante.
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I disastri, che seppellirono questi entusiasmi, puerili e apostolici insieme, ma dei quali non può avere idea esatta chi non vi ha assistito, non annientarono le speranze italiane della Savio, ed o notevole rilevare, che, qualche tempo dopo, proprio con lei in Torino, Adolfo Thiers tenne una lunga ed intima conversazione, improntata a sensi italiani (3). La Savio la trascrisse ed io la riproduco integralmente :
En me parlant de la bataille de Novara, il me dit que Charles Albert avait fait là une guerre digne d’un paladin de la table ronde. Le succès en aurait fait un héros de roman: le désastre ne lui attira de la foule ingrate, des grands, et des petits, que le baptême de Don Quichotte. Il en avait écrit directement à cet égard au malheureux Monarque.
Il avait bien compris l’avenir du Piémont, en me disant que c’était dans ce petit Règne que le feu sacre de la liberté aurait pris des proportions immenses; et que tout l’avenir de l’Italie était dans l’énergie de son peuple, et dans la loyauté et le courage militaire de son jeune roi Victor Emanuel.
La France avec ses émeutes et ses révolutions se blessait elle méme, disait-il. Rien de grand n’est possible là où l’on se tue à tout propos entre frères et frères.
Il me raconta comme quoi il avait couru de graves dangers personnels lors de la chute des Orléans en 1848. Le peuple arrêta sa voiture, lorsqu’il sortit pour la dernière fois de chez Louis Philippe, et l’obligea d’en descendre. On voulait qu’il criât vive la république. II ne le devait pas, car il y était contraire; s’y refuser pouvait être sérieux. Il recourut a son éloquence, ou mieux a sa connaissance du cœur humain et des masses. Il dit que celui-là était un cri d’amour, et comme il ne l’avait pas assez dans le cœur il aurait cru de l’insulter en lui mentant; "Des voix menacantes se firent entendre, des mains amies me prirent, moi si petit, me soulevèrent, me jetérent dans ma voiture, qui s’ouvrit un passage aìà la grande carrière, et je fus tiré de là sans savoir encore à présent à qui je devais ma liberté, et peut-étre la vie…
II me disait que le parti d’Henri V n’avait plus de chance. Les légitimistes n’ont pas voulu marcher avec les peuples, et avec le progrès, et ils sont restés tellement en arrière qu’ils n’ont plus de chance, tous honnêtes gens qu’ils sont, de jamais se rejoindre dans une entente cordiale avec la nation.
Il pensait que les Orléans ne s’étaient éclipsés que momentanément. Il y a de hautes qualités dans cette famille; c’est une si belle et vaillante race qu’elle se fera largo de nouveau.
Il désapprouvait le mariage du duc de Montpensier avec la jeune reine d’Espagne, et disait que la femme, la sœur, et la belle-fille de Louis Philippe (la duchesse Hélène) étaient trois des plus nobles et accomplis modèles de femme.
Il pensait que dans Mons. de Cavour, il y avait toute l’étoffe subtile d’un homme d’état. Il estimait beaucoup Mons. d’Azeglio, alors président du cabinet, mais j’ai cru voir qu’il appréciait mieux son caractère, et ses talents de peintre et d’écrivain que son habilité comme homme politique. Il n’approuvait pas les petits journaux politiques pour le peuple. C’est leur donner des idées qui ne servent qu’à le distraire de sa vraie mission qui est celle du travail. Ces petits jour- naux parlent de leurs droits, beaucoup plus que de leurs devoirs.
Il parla de notre armée, en disant que l’artillerie sarde, surtout, était des plus estimées, non seulement en France, mais dans les plus grands états de l’Europe.
Il me dit très-gracieusement qu’il partait avec la meilleure opinion des dames italiennes, puis-qu’il aimait de croire qu’elles me ressemblaient.
J’aurais voulu ne pas écrire cette dernière phrase, mais’elle est si bien tournée, et me fut dite si simplement, que je la cite comme histoire, pour démontrer à quel point ce grand homme d’état fait aller les jugements profonds avec la courtoisie du salon [da pagina 43 a 50]
Note da pagina 43 a 50
Quando la salma di Carlo Alberto fu condotta a Superga, alla Savio fu dato assistere al ricevimento fattovi ai consunti avanzi del martire dell’Oporto.
“Vi fu una mestissima funzione, essa scrive. C’era il Ministro dell’interno con l’apposito verbale, c’era il cav. Menabrea, allora primo uffiziale per gli Esteri, a rappresentare il Ministro, c’era la Corte militare del defunto re; i suoi più fidi servitori che piangevano. Il più attempato, tra i Cavalieri dell’Annunziata, portava il collare di Carlo Alberto su di un piatto d’argento. Un altro della sua corte portava la spada.
“Dopo il servizio funebre si fece il verbale nei sotterranei, si aperse la cassa, se ne verificò la salma, e fu posta nel sepolcro dell’ultimo (Carlo Felice) tolto di colà il mattino; si murò tosto la bara, e l’infelice e cotanto calunniato monarca fu lasciato solo ai giudizi di Dio, misericordiosi sempre a quelli che credono, e che hanno molto sofferto. Appena Carlo Alberto spirava, gli si tagliarono i baffi e i capelli lunghissimi e bianchi; il conte Cibrario, colà presente, raccoglieva i preziosi ricordi, onde recarli alla vedova desolata; e in un piccolo, medaglione a vetri, cerchiato in oro, ne racchiudeva un frammento, che gentilmente mi regalava. Quei capelli dell’esule d’Oporto, e un autografo, conservo tra le cose mie preziose…
La marchesa Costanza D’Azeglio, moglie a Roberto D’Azeglio, figlia di Carlo Emanuele Alfieri di Sostegno, sorella di Cesare. Alfieri, presidente del Senato, cognata di Massimo D’Azeglio, e più o meno strettamente imparentata ai Lisio, ai Bulbo, ai Lamarmora, a Cavour, ai Villamarina e a Giacinto Collegno, fu una delle patrizie piemontesi più spiccate per altezza d’animo e per sentimenti patrii. Nata nel 1793, andò a marito nel 1815 e morì nell’aprile del 1862. Suo figlio, Emanuele, ha pubblicato, con una breve prefazione, circa 300 lettere della madre, interessantissime, essendo ella in grado, per la parentela e le aderenze, di seguire molto addentro le vicende politiche. Il volume ha per titolo:
Souvenirs historiques de la marquise Constance D’Azeglio, née Alfieri, tirés de sa correspondance avec son fils Emannel, avec l’addition de quelques lettres de son mari le marquis Robert D’Azeglio, de 1838 à 1861. Turin, Bocca, 1884.
3) Non debbono far meraviglia questi sentimenti del Thiers, poiché egli era allora dominato da una devota passione per la principessa di Belgioioso, della quale subiva il fascino e l’influenza sino a tenore discorsi italiani in pubbliche adunante a Parigi. (V. R. BARBIERA, La principessa di Belgioioso, Milano, Trevea, 1902, pag. 109). Scomparso l’ascendente di quella beltà femminile, egli mutò, e come! (V. G. PAGANI, Uomini e cose in Milano dal marno all’agosto 1848, Milano, Cogitati, 1906, pag. 13).