RICCI Raffaello – Memorie della Baronessa Olimpia Savio. Volume I. Fratelli Treves, Milano 1911, 30 novembre 2010
RICCI Raffaello – Memorie della Baronessa Olimpia Savio. Volume I. Fratelli Treves, Milano 1911 Estratto da pagina 43 a pagina 50 L’epoca straordinaria del 1848 lasciò nella Savio impressioni incancellabili
RICCI Raffaello – Memorie della Baronessa Olimpia Savio. Volume I. Fratelli Treves, Milano 1911 Estratto da pagina 43 a pagina 50 L’epoca straordinaria del 1848 lasciò nella Savio impressioni incancellabili. Torino nel 1848 presentò uno spettacolo unico nel secolo, l’esaltamento patriottico fu d’indole diffusiva così che dalle teste bionde alle bianche era una vertigine istessa. I pranzi, le poesie, le luminarie, le ovazioni, e le dimostrazioni di ogni fatta si succedevano senza tregua. Ed io, che occupavo allora un appartamento in via di Po, mi trovavo ai primi posti per godere di quegli spettacoli incessanti, e per dover provvedere a esporre i lumi, o a che le bandiere, o gli arazzi pendessero dai nostri balconi, come da tutti gli altri. Più di una volta nelle pubbliche e frequenti adunanze liberali, che tenevansi al Vauxhall, e più tardi nel teatro Gerbino, udii la fluida parola di Gioberti, che scattava, ora abbagliante come folgore e ora tranquilla, serena come la verità e la giustizia, inculcando essere volontà dell’Altissimo i moderni moti, fatti provvidenziali, bandiera santa, su cui voleva inciso il motto: Patria e Dio. Fu in uno di quei comizi che udii il generale Ramorino, con voce tonante, vantarsi di bastare lui solo a levarci di collo la più abborrita delle signorie straniere, quella dell’Austria. "Datemi diecimila uomini, esclamava, e io vi dò il quadrilatero e i Tedeschi fuori d’Italia... Mi ricordo di un pranzo d’artisti, a cui la Marchionni, la contessa Portula del Carretto, la contessa Masino, la Montignani, io con mio marito ed altre fummo invitate. Una deputazione di artisti, in giubba e guanti blandii, venne a prenderci e a farci scorta d’onore fino alla carrozza. Una volta arrivate, fummo accompagnate nella sala, dove erano cento e più posti preparati: quella sala era corsa per intero da una galleria, dove si era ammesso il colto pubblico e la inclita guarnigione. Dire gli entusiasmi, e i brindisi, gli evviva, i voti e le speranze di tutta quella folla sarebbe impossibile. Tutti, uomini e donne, mandarono un saluto ali’ Italia libera ed una, desiderio di cui l’effettuazione pareva allora imminente. Vinta dall’insistenza di tutti, perché facessi anch’io un voto all’Italia, mandai un saluto alla Venezia, martire nobilissima, e allora più tormentata che mai. Una salva rumorosa di voci e di battimani sorse unanime dai commensali e dagli spettatori; e quelle poche parole mi fu forza ripeterle con animo commosso ; quelle parole, ed altre della Colombini e della Portula, si stamparono insieme ad alcuni altri brindisi, tra cui uno del conte Chiavarina, in un volume che mi fu poscia presentato e che più tardi diedi alle fiamme, perché presa dalla vergogna di quei puerili e ciarlieri entusiasmi. Di codesti errori di esaltamento debbo confessare anche un altro, e si è d’ aver fatto una, poesia, dedicata ai giovani dell’Università, che erano venuti in deputazione a presentarmene alcune, fatte da loro sulla Costituzione, largita allora da Carlo Alberto. La commissione era composta da quattro studenti, fra i quali Costantino Nigra e il Luzzi, l’autore più tardi di tante belle armonie. Quella poesia, un orrore, fu portata alle stelle. Nigra, il giovine Ministro in germe, la declamò dalla cattedra in una sala dell’Università, e per cura degli studenti fu stampata. * Quell’alito di indipendenza, in senso tutto italiano, penetrò nelle quiete abitudini domestiche. Nel palazzo D’Azeglio, dalla marchesa Costanza, nata Alfieri di Sostegno (2), donna bellissima d’animo e di persona, venne convocato un gruppo di signore a scopo d’in tendersi, per adottare un modo di vestire, che ci tornasse all’antico nostro carattere nazionale, affrancandoci dalle mode francesi, e tornando una buona volta alle signorili tuniche di velluto, ai larghi e piumati feltri medievali, che formavano la nera eleganza delle nostre bisnonne; vestiario quieto ed economico, perché al costo corrispondeva la durata. Il figurino fatto a ciò, e ch’io conservo, è vestito di un’ ampia sottana di raso bianco con sopravi una veste di velluto nero accollata su di un collaretto bianco a crespe; il corpo aderisce alla lunghezza della vita, dilatandosi poscia in larghe falde, che s’arrestano a un palmo prima del finire della sottana, che forma una sottoveste. L’abito è aperto davanti e semi-aperto sul seno cosi da lasciare intravedere le candide pieghe e minute del camicino; le maniche sparate su d’una sottomanica pure di buon raso stretta ai polsi; i calzaretti di velluto nero; il cappello di feltro ad ala semilarga, rialzata alla sinistra, e con sopravi una bianca piuma di struzzo a larghi flabelli: un insieme avvenente i quanto mai e signorile. Nell’estate, e a norma delle condizioni più o meno agiate, dovevano essere altre stoffe, ma la forma immutabile. Alle poche presenti, io tra quelle, l’idea piacque, ma dopo più maturo esame si ebbe a riflettere che per adottare uniforme un tal vestiario si voleva anzi tutto essere alte di statura, e bellissime, e, visto che in ciò l’unanimità mancava, deponemmo sospirando l’idea. Questo ritorno al passato, in fatto di abiti, venne giudicato inammissibile, anche perché al concetto patriottico non corrispondeva Io spirito di uguaglianza, che è la caratteristica dell’età nostra; più assai che ad una uniformità relativa, un simile vestire ci portava a quelle evidenti specificazioni di casta, che allora appunto volevansi distrutte; senza dire che quelle’erano foggie da palafreni, da lettighe, da carrozzoni dorati, in urto quindi con le carrozzelle da nolo, le navi a vapore, e le ferrate, di fronte a cui, malgrado la differenza di ceto, si è tutti sulle stesse ruote, in balla della stessa macchina, e tutti pari nell’aspettare e nel non essere aspettati. Conservo non pertanto, come prezioso termometro dell’epoca, quel figurino di moda, allora con tanta serietà discusso, perdio conferma la generosa utopia di assimilamento che allora predominava a segno, che la stessa idea, da noi signore trovata inammissibile, veniva invece tosto tradotta in pratica, non solo da un gruppo di giovani eleganti, tra cui Costantino Nigra, ma da un gruppo di gravi uomini, come Sebastiano Tecchio, Siotto Pintor, ecc., i quali vestirono il lucco ed il cappello piumato dei tempi di Dante. * I disastri, che seppellirono questi entusiasmi, puerili e apostolici insieme, ma dei quali non può avere idea esatta chi non vi ha assistito, non annientarono le speranze italiane della Savio, ed o notevole rilevare, che, qualche tempo dopo, proprio con lei in Torino, Adolfo Thiers tenne una lunga ed intima conversazione, improntata a sensi italiani (3). La Savio la trascrisse ed io la riproduco integralmente : En me parlant de la bataille de Novara, il me dit que Charles Albert avait fait là une guerre digne d’un paladin de la table ronde. Le succès en aurait fait un héros de roman: le désastre ne lui attira de la foule ingrate, des grands, et des petits, que le baptême de Don Quichotte. Il en avait écrit directement à cet égard au malheureux Monarque. Il avait bien compris l’avenir du Piémont, en me disant que c’était dans ce petit Règne que le feu sacre de la liberté aurait pris des proportions immenses; et que tout l’avenir de l’Italie était dans l’énergie de son peuple, et dans la loyauté et le courage militaire de son jeune roi Victor Emanuel. La France avec ses émeutes et ses révolutions se blessait elle méme, disait-il. Rien de grand n’est possible là où l’on se tue à tout propos entre frères et frères. Il me raconta comme quoi il avait couru de graves dangers personnels lors de la chute des Orléans en 1848. Le peuple arrêta sa voiture, lorsqu’il sortit pour la dernière fois de chez Louis Philippe, et l’obligea d’en descendre. On voulait qu’il criât vive la république. II ne le devait pas, car il y était contraire; s’y refuser pouvait être sérieux. Il recourut a son éloquence, ou mieux a sa connaissance du cœur humain et des masses. Il dit que celui-là était un cri d’amour, et comme il ne l’avait pas assez dans le cœur il aurait cru de l’insulter en lui mentant; "Des voix menacantes se firent entendre, des mains amies me prirent, moi si petit, me soulevèrent, me jetérent dans ma voiture, qui s’ouvrit un passage aìà la grande carrière, et je fus tiré de là sans savoir encore à présent à qui je devais ma liberté, et peut-étre la vie… II me disait que le parti d’Henri V n’avait plus de chance. Les légitimistes n’ont pas voulu marcher avec les peuples, et avec le progrès, et ils sont restés tellement en arrière qu’ils n’ont plus de chance, tous honnêtes gens qu’ils sont, de jamais se rejoindre dans une entente cordiale avec la nation. Il pensait que les Orléans ne s’étaient éclipsés que momentanément. Il y a de hautes qualités dans cette famille; c’est une si belle et vaillante race qu’elle se fera largo de nouveau. Il désapprouvait le mariage du duc de Montpensier avec la jeune reine d’Espagne, et disait que la femme, la sœur, et la belle-fille de Louis Philippe (la duchesse Hélène) étaient trois des plus nobles et accomplis modèles de femme. Il pensait que dans Mons. de Cavour, il y avait toute l’étoffe subtile d’un homme d’état. Il estimait beaucoup Mons. d’Azeglio, alors président du cabinet, mais j’ai cru voir qu’il appréciait mieux son caractère, et ses talents de peintre et d’écrivain que son habilité comme homme politique. Il n’approuvait pas les petits journaux politiques pour le peuple. C’est leur donner des idées qui ne servent qu’à le distraire de sa vraie mission qui est celle du travail. Ces petits jour- naux parlent de leurs droits, beaucoup plus que de leurs devoirs. Il parla de notre armée, en disant que l’artillerie sarde, surtout, était des plus estimées, non seulement en France, mais dans les plus grands états de l’Europe. Il me dit très-gracieusement qu’il partait avec la meilleure opinion des dames italiennes, puis-qu’il aimait de croire qu’elles me ressemblaient. J’aurais voulu ne pas écrire cette dernière phrase, mais’elle est si bien tournée, et me fut dite si simplement, que je la cite comme histoire, pour démontrer à quel point ce grand homme d’état fait aller les jugements profonds avec la courtoisie du salon. Quando la salma di Carlo Alberto fu condotta a Superga, alla Savio fu dato assistere al ricevimento fattovi ai consunti avanzi del martire dell’Oporto. “Vi fu una mestissima funzione, essa scrive. C’era il Ministro dell’interno con l’apposito verbale, c’era il cav. Menabrea, allora primo uffiziale per gli Esteri, a rappresentare il Ministro, c’era la Corte militare del defunto re; i suoi più fidi servitori che piangevano. Il più attempato, tra i Cavalieri dell’Annunziata, portava il collare di Carlo Alberto su di un piatto d’argento. Un altro della sua corte portava la spada. “Dopo il servizio funebre si fece il verbale nei sotterranei, si aperse la cassa, se ne verificò la salma, e fu posta nel sepolcro dell’ultimo (Carlo Felice) tolto di colà il mattino; si murò tosto la bara, e l’infelice e cotanto calunniato monarca fu lasciato solo ai giudizi di Dio, misericordiosi sempre a quelli che credono, e che hanno molto sofferto. Appena Carlo Alberto spirava, gli si tagliarono i baffi e i capelli lunghissimi e bianchi; il conte Cibrario, colà presente, raccoglieva i preziosi ricordi, onde recarli alla vedova desolata; e in un piccolo, medaglione a vetri, cerchiato in oro, ne racchiudeva un frammento, che gentilmente mi regalava. Quei capelli dell’esule d’Oporto, e un autografo, conservo tra le cose mie preziose… La marchesa Costanza D’Azeglio, moglie a Roberto D’Azeglio, figlia di Carlo Emanuele Alfieri di Sostegno, sorella di Cesare. Alfieri, presidente del Senato, cognata di Massimo D’Azeglio, e più o meno strettamente imparentata ai Lisio, ai Bulbo, ai Lamarmora, a Cavour, ai Villamarina e a Giacinto Collegno, fu una delle patrizie piemontesi più spiccate per altezza d’animo e per sentimenti patrii. Nata nel 1793, andò a marito nel 1815 e morì nell’aprile del 1862. Suo figlio, Emanuele, ha pubblicato, con una breve prefazione, circa 300 lettere della madre, interessantissime, essendo ella in grado, per la parentela e le aderenze, di seguire molto addentro le vicende politiche. Il volume ha per titolo: Souvenirs historiques de la marquise Constance D’Azeglio, née Alfieri, tirés de sa correspondance avec son fils Emannel, avec l’addition de quelques lettres de son mari le marquis Robert D’Azeglio, de 1838 à 1861. Turin, Bocca, 1884. 3) Non debbono far meraviglia questi sentimenti del Thiers, poiché egli era allora dominato da una devota passione per la principessa di Belgioioso, della quale subiva il fascino e l’influenza sino a tenore discorsi italiani in pubbliche adunante a Parigi. (V. R. BARBIERA, La principessa di Belgioioso, Milano, Trevea, 1902, pag. 109). Scomparso l’ascendente di quella beltà femminile, egli mutò, e come! (V. G. PAGANI, Uomini e cose in Milano dal marno all’agosto 1848, Milano, Cogitati, 1906, pag. 13).