ROSARIO Romeo, Cavour e il suo tempo, Laterza, Bari 1977, 29 novembre 2010
DA ROMEO, CAVOUR E IL SUO TEMPO
A trentasette anni Cavour si accingeva dunque a entrare nella vita pubblica, dapprima come giornalista e, qualche mese dopo, come deputato. Ingresso tardivo, se si pensa a Pitt cancelliere dello Scacchiere a ventitré anni e primo ministro a ventiquattro, a Peci deputato a ventidue e a Gladstone a ventitre; e anche a Disraeli, membro della Camera dei Comuni a trentatre anni, e a Bismarck, entrato nella Dieta unita di Berlino a trentadue.
Certo, non ha molto senso chiedersi che cosa il paese abbia perduto a causa di questo ritardo, che un Cavour già stato al servizio della monarchia assoluta non avrebbe potuto mettersi alla testa del Piemonte liberale e dell’impresa dell’unità italiana; ma è inevitabile domandarsi che cosa abbia significato quella lunga attesa nello sviluppo della sua personalità. Nonostante l’«attrait irrésistible » (271) che per lui aveva sempre avuto la lotta politica, e nonostante che « je n’aurais pas mieux demandé que de pouvoir consacrer tout mon tems* et tous mes moyens au service de l’État dans une position publique » (272), per quasi vent’anni aveva dovuto dedicare la sua immensa energia intellettuale e morale a oggetti troppo minori di essa, logorandovi inutilmente le risorse della sua potente carica vitale; e talune tracce di questa dispersione erano rimaste a segnare durevolmente la sua personalità. Non che per Cavour si possa in alcun modo parlare di ciò che la moda chiama frustrazione, che anche nei momenti più oscuri della sua difficile giovinezza, dopo il 1831, al tempo dell’incontro con Emilia di Pollone, e più tardi nel 1842 (273), egli riuscì sempre a tradurre i suoi problemi in un fervore di attività di cui era ben lontano dal sottovalutare i risultati, nell’agricoltura e negli affari, nella finanza e nella pubblicistica (274); e comunque in questa sede si è rinunciato fin dall’origine a tal genere di amenità. Ma da quelle vicende gli era rimasta, con l’impressione di avere «impiegato malamente gran parte del mio tempo e delle mie facoltà », e d’essere ormai ridotto a « membro inutile della società » (275), la sensazione di aver lasciato logorare il meglio di se stesso (276), di aver visto svanire le illusioni di un tempo nel contatto con gli aspetti più aspri e taglienti della sua vita di scapolo, di giocatore, di commerciante e speculatore 277. Questo sentimento viene alla luce in momenti di crisi psicologica come quello della scomparsa della madre, quando gli sembra che « l’amour d’une mère est le seul bien sans mélange- qu’on puisse posseder dans ce triste monde » (278), nel quale egli sente di dovere a lei « le peu de bon qu’il y a en moi » (279); e si rivela anche in certi inattesi e quasi minacciosi avvertimenti, come quando esortava l’amico Balbo a non crederlo « più buono di quel ch’io sono.
Co[rre]reste rischio di cadere in istraordinario errore» (280). Ma tutto ciò veniva, se non annullato, certamente superato e trasceso dalla sua prepotente vitalità, che si esprimeva in quella espansività e gioia di vivere che nell’immagine trasmessane alla storia è rimasta a contrassegnare anzitutto, e non senza ragione, la sua figura e la sua personalità. In quell’epoca non doveva esser troppo dissimile, nel fisico e nel morale, dalla descrizione che ne lasciò poi Michelangelo Castelli, che da allora gli fu vicinissimo sino alla morte: « di statura un poco al disotto della media, grassotto della persona, di portamento distinto, di colorito rosso, biondo di capelli, con occhi cerulei per non dir bigi, che scintillavano sotto gli occhiali. Per natura allegro, egli si presentava, o riceveva quasi sempre col sorriso sulle labbra, ed amava con qualche motto scherzevole entrare in discorso. La sua attività era continua; s’egli non agiva, pensava, meditava; quindi quei suoi modi talora astratti, quelle sue giaciture incomposte, quel bisogno di aver sempre qualche cosa tra le mani... » (281). Di lì a qualche anno, quell’aspetto e quei modi saranno noti a tutti gli italiani, si inseriranno in un mito e in una leggenda: da sfatare anch’essa, come tutte le leggende, ma solo dopo averne intese le radici reali e la funzione.
Adele di Cavour era morta, di cuore, il 23 aprile 1846 (282). Essa aveva istituito erede universale il nipote Augusto, figlio di Gustavo (283); ma, caduto questi a Goito il 30 maggio 1848, la sua eredità, del valore di quasi un milione di lire, era andata a Cavour, suo erede universale, che tuttavia vi rinunciò a favore di Gustavo e dei due figli superstiti, Giuseppina e Ainardo (284).
Successivamente, il 18 gennaio 1849, si spense « sans trop de souffrances » (285) Vittoria di Clermont-Tonnerre, vittima di una breve malattia cerebrale seguita a un periodo di lento affievolimento delle sue facoltà intellettuali (286). Il suo testamento lasciava eredi dei suoi beni (ad eccezione della villa del Bocage, che andò alle sorelle de Sellon), in parti uguali. Gustavo e Camillo di Cavour (287), che in tal modo subentrarono alla duchessa nei diritti che, come sappiamo, le spettavano su Leri (288). Il 15 aprile dello stesso 1849 la famiglia perdette, con la marchesa Filippina, quello che un tempo ne era stato il sostegno più saldo, e che aveva conservato fino agli anni più tardi la sua generosa e lucida energia (289). Il 1.5 giugno 1850 seguì poi la scomparsa del marchese Michele (290). Nonostante che negli ultimi anni fosse travagliato da attacchi sempre più frequenti di gotta, egli aveva continuato a coprire la carica di vicario di Torino, portando nelle sue funzioni di «basse police... une espèce de passion » che tuttora suscitava nel figlio «une certaine répugnance » (291). I vecchi contrasti, però, erano adesso dimenticati, e al loro posto troviamo numerose le testimonianze di legami di affetto forti ed autentici (292). Ma ormai i tempi volgevano avversi a coloro che, come il marchese di Cavour, si erano troppo compromessi con l’assolutismo: e il 17 giugno 1847 egli lasciava l’ufficio che aveva tenuto per dodici anni (293). Chi lo conobbe in quel periodo lo descrisse come « un vecchietto secco secco, in veste da camera, con una calotta in capo... il volto singolarmente espressivo... un paio d’occhi talmente spigliati e vivaci da scambiarsi per due occhi appartenenti ad un volto di giovanotto ardito e robusto. Quegli occhi fiancheggiavano un naso adunco, un po’ arcigno e indagatore, inclinato verso una bocca sottile ed asciutta. Aveva il piglio cortese e gioviale, leggermente intinto d’ironia », e quell’ironia gli consentiva di stare con disinvoltura nella sua nuova posizione di personaggio in quarantena, portatore d’un nome atto a compromettere ogni impresa in cui avesse avuto parte (294). Il suo spirito alacre non aveva ancora perduto l’antica vivacità; e di essa egli diede prova ancora una volta schierandosi il 5 febbraio 1848, in seno al Corpo decurionale della città di Torino, a favore della richiesta della costituzione, con un parere che fu ricordato ed ebbe gran peso nel decisivo Consiglio di conferenza del 7 febbraio (295). Con la sua morte, seguita a una lunga malattia e a gravi sofferenze, sopportate con la fermezza di sempre (296), e con quella di Vittoria di Clermont-Tonnerre, spariva adesso dalla scena la generazione di coloro che avevano personalmente vissuto il dramma della Rivoluzione e gli splendori dell’età napoleonica, dopo che intorno al 1830 erano scomparsi gli uomini dell’Antico Regime, i D’Auzers e i Franchino, seguiti ora dalla marchesa Filippina. Il campo era ormai libero davanti alla generazione formatasi nella lunga pace della Restaurazione, per la quale il quadro borghese dell’Europa ottocentesca era ormai scontato, e la Rivoluzione era solo un ricordo storico i che si allungava sul successori come un’ombra e un incubo ovvero come un mito esaltante: la generazione di cui Cavour sarà chiamato a interpretare e a realizzare alcuni dei sentimenti e delle esigenze più profonde.
Alla morte del marchese Santena, con i relativi mobili e arredi e con quelli del palazzo di Torino, andò a Gustavo, e altri beni, per esempio il castello e la cascina di Belforte a Trofarello, toccarono a Camillo; del restante patrimonio, con Leri, Grinzane, le cascine di Isolabella a Poirino, di Galle a Trofarello e Cambiano, di Cellarengo con bosco annesso nel comune omonimo, della Motta, con vari mulini, a Cavour e Barge, i palazzi di Torino e Chieri, con beni minori e alcuni titoli di credito (per esempio le azioni della Società dei battelli del Lago Maggiore), furono eredi in comune i due fratelli297, già beneficiari, come si è visto, di gran parte dell’eredità CIermont-Tonnerre. In tal modo Cavour si trovò comproprietario di un patrimonio che alcuni anni dopo egli valuterà (esclusa l’eredità Lascaris di circa 2,4 milioni di lire, spettante ai figli di Gustavo) a oltre quattro milioni, senza contare alcune centinaia di migliaia di lire di beni suoi particolari e i beni particolari del fratello; con un reddito annuo di oltre 250 mila lire (298). Il cadetto di un tempo, «fils de famille dans toute la force du terme » (299), era diventato titolare di una posizione patrimoniale che lo collocava tra i più facoltosi del Piemonte (300); ed essa contribuirà in qualche misura a rafforzare anche la posizione dell’uomo politico, già forte di così estese relazioni nel mondo degli affari, e di un prestigio e di un’autorità personale che presto nessuno oserà più mettere in discussione. Fra tanti cambiamenti, qualcosa restava delle vecchie, care abitudini di un tempo. Tra esse, le relazioni ginevrine e la consuetudine di passare ad anni alterni qualche periodo estivo nella città elvetica; mentre dopo il 1843, con i cresciuti impegni a Torino e la sistemazione degli affari della zia Vittoria, erano venuti meno e il tempo e le occasioni di nuovi viaggi in Francia e in Inghilterra. A Ginevra Cavour era Stato, insieme con Gustavo, nell’estate del 1845: passato il 18 luglio per Modane era arrivato il 21, e durante una quindicina di giorni aveva avuto modo di rinnovare gli antichi contatti con amici autorevoli e meno autorevoli, come Abel Villemain e Madame Marcet, e con i parenti Auguste ed Eugène De La Rive, Hippolyte De La Rüe e le cugine Sellon; per poi partire intorno al 5-6 agosto per la via di Zurigo ed essere, forse intorno al 10, di nuovo a Torino (301).
A Ginevra Cavour aveva certo avuto modo di conversare a lungo con Auguste De La Rive della situazione politica del cantone sotto il precario regime neoconservatore restaurato dopo il 1841, di cui appunto il De La Rive era uno dei massimi esponenti (302). E appunto preoccupazioni conservarne! e legalitarie spinsero l’anno dopo i dirigenti ginevrini sulle posizioni di aperta difesa dell’autonomia cantonale, e dunque dei cantoni cattolici favorevoli ai gesuiti contro i « corpi franchi » protestanti sostenuti dal governo federale, che dovevano precipitare la nuova «rivoluzione» dell’ottobre 1846. Respinta infatti il 3 ottobre dal Gran Consiglio di Ginevra la proposta di un immediato scioglimento del Sonderbund a opera del governo federale, nei giorni successivi i radicali guidati da James Fazy organizzarono, nella loro roccaforte del quartiere Saint-Gervais, una protesta popolare che presto assunse le forme di una ribellione armata contro la deliberazione del Gran Consiglio. Nel tentativo di schiacciare a tempo la rivolta, la milizia cantonale il 7 ottobre mosse all’assalto delle barricate che erano state erette, ma fu respinta dopo un fuoco assai vivo; e ciò bastò a diffondere lo scoraggiamento nelle file conservatrici. La mattina del giorno 8 il governo cantonale (Consiglio di Stato) dava le proprie dimissioni, trasferendo i poteri al Consiglio amministrativo della città; e il giorno dopo una folla di un paio di migliaia di persone, riunita nella piazza del Molard, si proclamava Consiglio generale del popolo di Ginevra, dichiarava decadute le autorità cantonali, eleggeva un governo provvisorio capeggiato dal Fazy e, fatta irruzione nell’aula delle deliberazioni del Gran Consiglio, ne imponeva lo scioglimento. Un nuovo Gran Consiglio fu eletto il 23 ottobre, con una netta maggioranza radicale; e una nuova costituzione, ispirata e redatta per gran parte dal Fazy, fu ancora approvata dal voto popolare il 24 maggio 1847, con 5.547 suffragi a favore e 3.187 contrari. La sua principale innovazione consisteva nella elezione diretta del Consiglio di Stato (governo) da parte del Consiglio generale, assemblea aperta a tutti gli elettori riuniti in un unico locale; mentre le elezioni del Gran Consiglio avvenivano secondo nuove circoscrizioni elettorali, designate ad assicurare in ogni caso il successo dei candidati radicali.
Queste disposizioni, unite all’elezione assembleare del Consiglio di Stato, al conferimento del diritto di voto agli assistiti e agli immigrati da altri cantoni svizzeri, ai rudi colpi inferii ai privilegi delle vecchie istituzioni del conservatorismo ginevrino, dall’Accademia alla Chiesa protestante alla Società economica, che fu addirittura soppressa, miravano a perpetuare il predominio dei vincitori nella vita della repubblica; e ci si è chiesto come esse siano state approvate da quello stesso corpo elettorale che dal 1842 al 1846 aveva regolarmente votato maggioranze conservatrici. Non v’è dubbio che la fuga o comunque la non partecipazione dei capi conservatori come Antoine-Élisée Cherbuliez e Auguste De La Rive, che per qualche tempo avevano abbandonato la città insieme a numerosi altri esponenti del regime moderato, contribuì grandemente a toglier animo ai residui rappresentanti del loro indirizzo, il cui singolare ritegno e la timidezza mostrata in varie occasioni sono da riferire alle conseguenze della sconfitta subita negli scontri del 7-9 ottobre. Essi agivano, cioè, sotto condizionamenti che non avevano nulla a che fare con il loro personale coraggio o sentimento dell’onore, ma che gravavano pesantemente sul quadro in cui si svolgeva il cimento elettorale (303), secondo una costante ben nota, e che solo una vacua mitologia elettoralistica può ostinarsi a negare. Ma agivano anche, con un peso considerevole, gli effetti della posizione falsa in cui i conservatori erano venuti a collocarsi. Non si può infatti dubitare della legalità e dello spirito di equità che animava il loro atteggiamento verso i cantoni cattolici: ma la battaglia sostenuta in difesa dei gesuiti da coloro che si vantavano di impersonare le migliori tradizioni della città di Calvino, a rischio di una rottura del nesso federale, era poco adatta a mobilitare le energie profonde dei loro fautori. Che era poi quanto Cavour non si stancò mai di segnalare agli amici ginevrini, dei quali pur condivideva largamente i rancori e le angosce, nei ripetuti avvertimenti ch’egli fece loro pervenire sull’impopolarità che al loro partito derivava dall’alleanza con la causa indifendibile dei gesuiti.
Tornato a Ginevra nell’estate del 1847 (era a Saint-Vincent il 21 luglio, il 26 a Ginevra e di ritorno a Torino, per Annecy, il 12 agosto successivo) (305), il conte si era rallegrato di trovare la città «moins bouleversée » di quanto aveva temuto (306). Ma in realtà essa doveva restare lacerata ancora a lungo da divisioni profonde, che giunsero sino alla creazione, da parte dei conservatori,-di scuole separate, volte ad evitare per quanto possibile ogni contatto dei propri figli con i radicali (307): indice significativo, questo, dei profondi contrasti che avrebbero travagliato la società europea ancora per vari anni dopo il 1848. Anche sul piano dei rapporti privati Ginevra per Cavour non era più quella di un tempo. La più affettuosa e fiduciosa amicizia continuava bensì a caratterizzare le sue relazioni con i De La Rive (Auguste, che aveva lasciato l’accademia, insegnò a partire dall’ottobre 1849 in uno degli istituti privati di cui si è detto) (308), e con i De La Rüe, nonostante gli screzi che nel maggio 1850 condussero David-Julien a staccarsi da Émile, col quale aveva finora diretto la De La Rüe Frères a Genova, e a raggiungere Hippolyte a Ginevra (309). Invece, i rapporti con la zia Cécile de Sellon e con le cugine, già deteriorati in seguito ai dissapori determinatisi tra i Cavour e Vittoria di Clermont-Tonnerre da un lato e la famiglia del filantropo dall’altro (310), subirono una grave crisi in seguito al testamento di Vittoria che, come sappiamo, privava le sorelle di gran parte dell’eredità a favore dei parenti di Torino (311). Qualche anno dopo Cavour, che si era in effetti adoperato a sanare i contrasti tra la zia e le cugine, dichiarava di essere rimasto « étonné » dalTatteggiamento di costoro. Ma, aggiungeva freddamente, « je ne leur en veux pas. Elles sont si malheureuses par leur propre faute, que le seul sentiment que j’aie pour elles est celui de la compassion » (312).
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271 Cavour a Paul-Émile Maurice, post. 24 maggio 1844, in Epist., III,
272 Cavour a Costa de Beauregard, ottobre 1847, in CHIALA, Lettere, I, p. 115.
273 Voi. i, pp, 379-81, 387-88, 717, 786.
274 Cavour a Costa de Beauregard, ottobre 1847, in CHIALA, Lettere, I, pp. 114-15.
275 Cavour a Carlo Cappai, 1846, in Epist. III, pp. 407-408
276 Vol. 1, p. 625.
277 Cavour a Cappai, 1846, in Epist., ni, p. 407: «tu hai mai sempre seguita la retta via della virtù. Da questa pur troppo io mi sono allontanato. Vorrei tornarci per non abbandonarla più, che già sento che il tempo m’incalza, e che percorro la parte discendente della curva della vita ».
278 Cavour a Hortense de Sellon, 29 maggio 1846, ibid., III , p. 305.
279 Cavour a Mathilde De La Rive, post. 23 aprile 1846, ibid., in, p. 295; l’espressione torna quasi alla lettera nella cit. lettera a Carlo Cappai, ibid., III, p. 408.
280 BAV, Patetta mss. 3873, t. 7, Cavour a Balbo, s.d. (ma ottobre-novembre 1847: per la data si tenga presente che le notizie statistiche sulla popolazione degli Stati Uniti d’America qui comunicate da Cavour sono utilizzate in BALBO, Cronaca politica mensile, in «Antologia italiana», novembre 1847 [estratto]).
281 CASTELLI, Ricordi cit. pp. 115-16. E cfr, l’altro ritratto, riferito ai primi del 1848, in G. TORELLI, Ricordi politici, a cura di C. Paoli, Milano 1873, pp. 65-66.
282 Cavour a Anastasie de Circourt, 11 aprile 1846, in Epist., III, p. 291; e cfr. ibid. III, p. 296 nota 1. Aveva 66 anni.
283 ACS, testamento 2 dicembre 1841, aperto il 27 aprile 1846; e cfr. i documenti in Epist. III, in, pp. 297-302.
284 Cavour a Corio, luglio 1849, in Cavour agricoltore, p. 245; e cfr. anche la lettera a Auguste De La Rive, 9 agosto 1855, in CHIALA, Lettere, v, pp. 357-58 (da integrare come indicato oltre, p. 270 nota 312).
285 Cavour a Émile De La Rüe, 22 gennaio 1849, in BERT, Lettres, p. 261.
286 Cavour a Amélie Revilliod, 19 o 20 gennaio 1849 (copia cc). Aveva 72 anni. Fino all’ultimo, scrive il conte G.-A. DE REISET, Mes souvenir, Paris 1901-1903, I, pp. 115-16, che la conobbe allora e che ne lasciò un vivace ritratto, «tout chez elle avait gardé les moeurs et les habitudes du règne de Louis XVI ».
287 Con testamento del 27 aprile 1843, aperto il 20 gennaio 1849 (in ACS), Vittoria di Clermont-Tonnerre (che era stata nominata erede universale del duca Aynard di Clermont-Tonnerre con testamento del 27 gennaio 1831: V. Vol. I, pp. 709-10) aveva istituito sua erede universale la sorella Adele di Cavour (con usufrutto intero per due anni, e poi a metà col marito marchese Michele), alla quale dovevano subentrare, in parti uguali, Gustavo e Camillo: che fu appunto ciò che si verificò per esser morta la marchesa Adele, come si è visto, anteriormente alla sorella.
288 Vol. I, pp. 614-15. In un conteggio di Cavour (ACS, Cavour a Gustavo, 13 luglio 1849), l’eredità della duchessa è valutata a circa 1.360.000 lire, con una rendita netta di 37.250 lire annue. La quota spettante a Camillo ascendeva a una rendita annua di lire 6.562.
289 La data della morte è segnata sulla tomba a Santena. Notizie sulla malattia della « Marina » nelle lettere di Cavour a Émile De La Rüe, 31 marzo, I°, 9 aprile 1849, in BERT, Lettres, pp. 284, 287, 290. Alla morte accenna Cavour a Cécile de Sellon, ant. 30 aprile 1849 (copia cc). Filippina di Cavour morì dunque a 87 (e non ad 88) anni. Cenni sulla sua ancor vivida personalità di quegli anni in Cavour a Hortense de Sellon, 29 maggio 1846, in Epist., III, p. 305, e a Émile De La Rue, 31 marzo 1849, in BERT, Lettres, p. 285.
290 Aveva 68 anni.
291 Cavour a Gustavo, giugno 1845, in Epist. III, p. 238.
292 Cfr. per es. Cavour a Michele, 13 o 14 maggio 1846,. ibid., III, pp. 297-99.
293 CHIALA, Lettere, I, p. CIV nota 1.
294 G. TORELLI, op. cit., pp. 216-18.
295 L’avviso del marchese («un personnage qui a exercé pendant 12 ans la police dans la capitale ») fu allora menzionato come cosa di molto rilievo dal conte Gallina (A. COLOMBO, Dalle riforme allo Statuto di Carlo Alberto, Casale 1924, p. 74; cfr. CHIALA, Lettere, V, pp. CCIX nota 1). Una delle sue ultime manifestazioni pubbliche fu la sdegnosa smentita ch’egli diede, con una lettera apparsa nel «Risorgimento», 2 marzo 1849, all’insinuazione ch’egli avesse ambito alla carica di Gran conservatore nel consiglio dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Ma anche per lui gli eventi non erano passati senza lasciar traccia: « j’ai vu — scriverà qualche anno dopo Gustavo a Auguste De La Rive, 16 ottobre 1854 — la chute de notre ancien système monarchique porter un coup profond à des personnes extrémement honorables... Je compte parmi ces hommes mon père... » (BPUG, ms. fr. 2322).
296 Cavour a Émile De La Rüe, 26, 30 maggio, 23 giugno 1850, in BERT, Lettres, pp. 381-84; a William De La Rive, 21 luglio 1850, in CHIALA, Lettere, v, p. 200; a Corio, I", 4 giugno 1850, in Cavour agricoltore, pp. 268-70. La scomparsa del proprietario e signore fu salutata con solenni riti nei possessi che la famiglia aveva acquisito in buona parte per opera sua: cfr. per es. ACS, Mastro di Leri 1849-50 [metodo Corio) ff. 86r 95r.
297 ACS, Testamento segreto di Michele di Cavour, 7 ottobre 1848, depositato presso il notaio T. Piumati, e aperto il 19 giugno 1850. Esso disponeva un lascito particolare di 220 mila lire a favore di Gustavo (mobili e arredi: lire 24 mila; Santena: lire 196 mila), e uno di 100 mila a favore di Camillo (Trofarello: lire 40 mila; cascina di Belforte, di giornate 52-53, lire 60 mila). Per la descrizione dei beni, i dati testamentari sono da integrare con quelli fomiti dai documenti cit. qui sotto, nota 298.
298 ACS, Inventario del Patrimonio dei Signori Benso di Cavour, 1° luglio 1856, dove sono elencati beni mobili e immobili per L. 7.306.004,95.
Sottratta l’eredità Lascaris, spettante, come sappiamo, ad Ainardo e a Giuseppina di Cavour, figli di Gustavo, per L. 2.400.904,95, Santena (L. 300 mila) e gli arredi del palazzo di Torino (forse 100 mila lire), che appartenevano a Gustavo in forza del testamento paterno, e i beni particolari di Camillo, comprendenti il castello e i beni di Trofarello (L. 140 mila) e le azioni dei Molini di Collegno e dell’Ecarrissage al Lingotto (L. 200 mila), si ha un residuo patrimonio familiare comune ai due fratelli di Lire 4.165.100. Nella denuncia di successione del conte di Cavour presentata il 5 ottobre 1861 a firma di Ainardo di Cavour (ACS), i beni in comune con Gustavo sono indicati in Lire 2.609.706; la metà spettante a Camillo, per Lire 1.304.853, unita ai beni suoi particolari, viene dunque denunciata per un totale di Lire 1.459.114,40. Ma è ovvio che, fra le due valutazioni, è senz’altro più attendibile la prima, redatta dallo stesso Cavour a fini strettamente privati, mentre la seconda è certo influenzata da ragioni fiscali. Sempre in ACS, due prospetti di bilancio del patrimonio di Casa Cavour registrano per il 1857 entrate in L. 257.682,08 e uscite in L. 137.498,45, e per il 1858 entrate in L. 251.988,74 e uscite in L. 160.684,31. Per un raffronto di qualche interesse cfr. la valutazione che il conte di Castagnette, « sovraintendente generale del patrimonio privato di S.M. », in ASC, Diario Castagnetta cit., 1° aprile 1841, dava del patrimonio della famiglia regnante, in L. 3,8 milioni, con un reddito netto di 166 mila lire, ma gravato di L. 1,8 milioni di debiti.
299 Vol. I, p. 380.
300 Qualche elemento, peraltro assai impreciso — essendo i contribuenti elencati secondo i beni posseduti provincia per provincia, e non per il totale —, di raffronto con altre cospicue famiglie piemontesi in L. BULFERETTI, I piemontesi più ricchi negli ultimi cento anni dell’assolutismo sabaudo, in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, Firenze 1958, I, pp. 84-91, dove si utilizzano i dati di una inchiesta governativa del 1824. Il marchese di Cavour « e soci » figurano ibid., I, p. 89, col massimo di imposta prediale nel Vercellese, ma si tratta certamente della quota afferente alla proprietà ancora indivisa di tutto il principato di Lucedio.
301 ACS, D/11, pp. 1-3; Epist., III, pp. 242-45.
302 RUCHON, Histoire politique cit., I, pp. 329-30.
303 Su queste vicende, ibid., I, pp. 360-407, II, pp 9-39- W, E. RAPPARD, L’avènement de la démocratie moderne a Genève (1814-1847), Genève 1942, no. 364-435.
304 Cavour a Adèle Maurice, 1° marzo 1845, a Émile De La Rüe, 12, 15, 16 ottobre 1846, a Hippolyte De La Rùe, 14 ottobre 1846, a Amélie Revilliod, 14 ottobre 1846, a Adèle Maurice, post. 16 ottobre 1846; Hippolyte De La Rüe a Cavour, 1° novembre 1846; William De La Rive a Cavour, 12 ottobre 1846, in Epist., III, pp. 222-23, 338-47, 355-56, 447-50. E, più tardi, Cavour a Mathilde De La Rive, 13 febbraio 1848, in CHIALA, Lettere, V, pp. 171-72.
305 Cavour a Corio, 21 luglio 1847, in Cavour agricoltore, p. 204; ACS, a Carlo Rinaldi, 21 luglio 1847; a Émile De La Rüe, 26 luglio, 13 agosto 1847, in BERT, Lettres, pp. 145, 147; a Y.-L. Prévost, 5 agosto 1847, a Monsieur Melly, 8 agosto 1847, a Eusebio Golzio, 9 agosto 1847, in N. CAPPONI-TRENCA, op. cit., pp. 158-59.
306 Cavour a Émile De La Rüe, 26 luglio 1847, in BERT, Lettres, p. 145.
307 RUCHON, Histoire politique cit., II, pp. 19-20.
308 Ibid., II, pp. 15-16, 19.
309 AST, Archivio Cavour, Fondo De La Rüe, Cavour a Émile De La Rüe, 17, 19 maggio 1850.
310 Cavour a Paul-Émile Maurice, gennaio 1840, in Epist., I, pp. 428-29; a Cécile de Sellon, 2 novembre 1841, ibid., n, pp. 216-17; ACS, D/ll, 4 agosto 1845: « diner chez Adèle: amers reproches d’Adèle et de ses soeurs.».
311 ACS, Copialettere II, 178, Cavour a Blanc, Mathieu e C., 5 marzo 1849; Copialettere II, 179-82, a Louis Gay, 9 marzo, 21-30 marzo, 14 aprile 1849.
312 BPUG, ms. fr. 2322, Cavour a Auguste De La Rive, 9 agosto 1855 (integrazioni inedite al testo in CHIALA, Lettere, v, pp. 357-58), dichiarava di essere disposto a indurre Gustavo a seguire i consigli dell’amico ginevrino nei confronti delle Sellon: « je le ferais à sa piace, bien que mes cosine n’aient guère droit a nos égards, leur conduite envers nous et j’ose [dire] envers moi en particulier ayant été injustifiable. Vous savez que j’ai fait tout ce qui dépendait de moi pour les rapprocher de leur tante de Tonnerre, dans le but de modifier en leur faveur ses dispositions. Je n’ai pas réussi, grâce a l’entêtement de ma tante, aux caprices d’Adèle, et à d’autres circonstances qu’il est inutile de rappeler. Néanmoins je puis vous assurer que j’ai persisté dans mes efforts jusqu’au dernier moment, et que plus d’une fois j’ai attiré sur moi la colere de ma tante. Après cela, j’étais loin de m’attendre que mes cousines me représenteraient comme ayant cherché à les priver de l’héritage de leur tante et rompraient à peu près tout rapport avec moi. J’ai trop expérience du monde et des hommes pour avoir foi dans la justice et la reconnaissance de ceux avec qui j’ai eu a faire: malgré cela la conduite de ma tante Sellon et de ses filles m’a étonné. Elles ne m’ont pas même annoncé la mort d’Adèle [1854]: cela veut dire que nous devons désormais demeurer étrangers les uns aux autres. Malgré cet étrange procédé, je ne leur en veux pas. Elles sont si malheureuses par leur propre faute, que le seul sentiment que j’aie pour elles est celui de la compassion. Si quelques milliers de francs peuvent leur étre agréables je les leur abandonnerais avec plaisir ».
(*tems è scritto senza P nel libro)