Varie, 29 novembre 2010
La Corte d’Appello di Palermo, dopo cinque giorni di camera di consiglio, ha condannato Marcello Dell’Utri a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa
La Corte d’Appello di Palermo, dopo cinque giorni di camera di consiglio, ha condannato Marcello Dell’Utri a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma lo ha assolto da tutte le accuse relative a fatti accaduti dopo il 1992. In primo grado, il senatore era stato condannato a nove anni più due di libertà vigilata più 70 mila da rifondere a Comune e Provincia di Palermo (parti civili). Adesso la pena è stata ridotta, di fatto, di quattro anni e a Comune e Provincia di Palermo andranno solo settemila euro (pagamento delle spese legali). I difensori ricorreranno in Cassazione, anche se è molto probabile che i reati contestati cadano, o siano addirittura già caduti, in prescrizione. Le indagini relative cominciarono 16 anni fa. Il processo aveva un altro imputato, Gaetano Cinà, morto nel frattempo e contro il quale la Corte ha stabilito non si debba procedere. Il Procuratore Generale di Palermo, Antonino Gatto, e i pubblici ministeri, Antonio Ingroia e Domenico Gozzo, hanno cercato di dimostrare che intorno all’anno 1993 lo Stato e la mafia strinsero un’alleanza che garantiva completamente i malavitosi siciliani. Frutto di quest’alleanza sarebbe stata la nascita di Forza Italia, il partito di Berlusconi. Tessitore dell’accordo, lo stesso Dell’Utri. Prove di questo asse: le dichiarazioni del pentito Spatuzza, debolmente ribadite in aula a Torino e non confermate dal suo boss di riferimento Giuseppe Graviano, attualmente all’ergastolo. Alla fine del processo e poco prima che i tre giudici si riunissero, il Procuratore Generale Antonino Gatto, per sostenere la sua richiesta di una condanna di Dell’Utri a 11 anni, ha detto ai tre giudici: «Dovete prendere una decisione storica, non solo dal punto di vista giudiziario, ma per il nostro Paese. Voi potete contribuire alla costruzione di un gradino, salito il quale, forse, si potranno percorrere altri scalini che potranno far accertare le responsabilità che hanno insanguinato il nostro Paese. Oppure potete distruggere questo gradino». L’idea che le bombe messe dalla mafia a Roma, a Firenze e a Milano nel 1993 (dieci morti) andassero inquadrate nel presunto patto era stata ribadita da Antonio Ingroia appena due settimane fa: «Secondo un’ipotesi investigativa sempre più accreditata, Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso in quanto ritenuto un ostacolo alla trattativa che si sarebbe sviluppata fra Stato e mafia durante la stagione stragista, a cominciare dalla strage di Capaci in cui aveva perso la vita Giovanni Falcone con la moglie e i poliziotti della scorta». E che una trattativa ci fu, «è ormai processualmente accertato» (introduzione al libro di Maurizio Torrealta La trattativa, Rizzoli). Pochi giorni prima aveva adombrato la stessa tesi il procuratore antimafia Pietro Grasso: «Cosa nostra ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste». Questa ipotesi-storico politica è stata totalmente azzerata dalla sentenza di Palermo. Subito dopo la sentenza, il procuratore generale di Palermo, Antonino Gatto, ha dichiarato: «Processualmente parlando, Dell’Utri non ha favorito la mafia. Ma questo non vuol dire affatto che ciò non possa essere accaduto in natura. Bisognerà piuttosto leggere le motivazioni della sentenza per capire i motivi che hanno spinto la corte a prendere questa decisione. Forse perché le affermazioni di Spatuzza non sono state ritenute attendibili, o perchè le prove portate dall’accusa sono state considerate infondate, o perchè sono mancati i riscontri. Sono profondamente deluso perché ritengo che l’aspetto politico era la parte della vicenda sulla quale l’accusa aveva quagliato meglio». Il senatore Marcello Dell’Utri non ha atteso la sentenza a Palermo. Comunicata la notizia, ha convocato una conferenza stampa a Milano: «È una sentenza pilatesca sapevo che non sarei stato assolto. Hanno dato un contentino alla procura palermitana e una grossa soddisfazione all’imputato, perché hanno escluso tutto ciò che riguarda le ipotesi dal 1992 in poi. Aspetto la Cassazione con animo fiducioso, spero di trovare un giudice che dica: “Che avete fatto fino ad ora?" 15 anni di tempo perso e sofferenza data alle persone». Il senatore ha ribadito che Vittorio Mangano, il mafioso ingaggiato da Berlusconi per mettersi al sicuro da un eventuale sequestro, «è stato il mio eroe. Era una persona in carcere, ammalata. Invitata più volte a parlare di Berlusconi e di me si è sempre rifiutato di farlo. Se si fosse inventato qualsiasi cosa gli avrebbero creduto. Ma ha preferito stare in carcere, morire, che accusare ingiustamente. È stato il mio eroe. Io non so se avrei resistito a quello a cui ha resistito lui».