Varie, 29 novembre 2010
MILANO PRIMA DEL QUARANTOTTO – APPUNTI
OMODEO Adolfo - L’età del Risorgimento italiano. Indice dei nomi. Principato, Messina 1931.
«L’opinione antiaustriaca del ceto predominante aveva senza grandi difficoltà conquistato le classi inferiori, soprattutto l’artigianato, per i più rapidi scambi fra le classi dovuti alla più intensa vita economica» [347]
Contro l’Austria venne adottato «quell’isolamento completo del governo, quel ribrezzo d’ogni contatto con lo straniero» «Talora i ricevimenti del vicerè si svolsero in salotti deserti… il popolo minuto scansò ogni contatto con la guarnigione… anche il Veneto… le università di Pavia e di Padova erano seminari di liberalismo»
«Agenti piemontesi s’erano insinuati nella cittadinanza promettendo l’ausilio di Carlo Alberto. Il d’Azeglio aveva scritto un altro dei suoi opuscoli: I lutti di Lombardia»
WOOLF Stuart J. - Il Risorgimento italiano. Traduzione di Elda Negri Monateri e Aldo Serafini. Due volumi. Note, indice analitico. Einaudi, Torino 1981.
La nuova amministrazione austriaca cambiò rispetto alla napoleonica in due punti fondamentali: «In primo luogo fu imposto il servizio militare obbligatorio per un periodo di otto anni (il doppio di quello previsto nel periodo precedente), e con maggiore severità che non nei domini imperiali transalpini; il prestare servizio in un esercito multinazionale, quasi sempre fuori d’Italia… In secondo luogo, i rapporti commerciali con la Francia e il resto del mondo occidentale subirono una brusca interruzione in seguito all’imposizione del “sistema proibitorio” austriaco, con forti barriere doganali sulle importazioni, le esportazioni e il transito delle merci. Anche quando le barriere che dividevano la Lombardia dal Veneto e queste regioni dal resto dell’Impero furono eliminate (1822, 1825), la politica economica viennese continuò a indirizzare il commercio dei domini italiani verso i mercati austroungarici, mantenendo le barriere doganali verso la Francia e il Piemonte. Venezia fu ulteriormente danneggiata dalla decisione austriaca di fare di Trieste il più importante porto imperiale: anche i ceti commerciali lombardi, tagliati fuori dai loro sbocchi naturali di Genova e Lione, subirono gravi danni» [334-335]
«Venezia era umiliata dalla subordinazione a Milano» [335]
«Le classi dirigenti lombarde e venete erano ostili alla presenza di un esercito d’occupazione “straniero”» [335]
«L’estremo accentramento dell’amministrazione a Vienna, tipico per tutto l’impero, rivelò ben presto l’inconsistenza delle autonomie locali e la limitatezza delle possibilità di carriera nella pubblica amministrazione» [335]
«Si diffuse l’opinione, avvalorata dal segreto che copriva il bilancio, che l’Austria stesse sfruttando finanziariamente il Lombardo-Veneto per coprire il crescente deficit imperiale». [335]
Opinione di Bellegarde, governatore del Regno fino al 1816, che sia impossibile «la lenta assimilazione di queste province da parte del corpo tedesco della monarchia», va abbandonato il piano di una «completa fusione». Stesso tono in una nota di Strassoldo del 1820 [335-336].
«Romantico fu sinonimo di liberale né più osarono dirsi classicisti fuorché gli ultra e le spie» (Pellico) [350]
«A Milano nel 1838 vi erano 42 banchieri e 25 agenti di cambio; l’industria della seta e quella tessile in generale dominavano il campo delle attività manifatturiere con “76 negozianti di seta, 40 filatoi di seta, 196 fabbricanti di stoffe e nastri di seta, tele e cotoni, veli e trine, 106 negozianti di panni, cotoni, tele, canape e cordaggi ecc., 48 tintorie e stamperie di lana, seta, cotone e lino”. C’erano anche 146 commercianti in droghe e generi coloniali e medicinali, 46 in pellami, 155 di vini, olii, formaggi, granaglie ed altri commestibili, oltre a 150 sensali in diversi generi e 5 raffinerie di zucchero”. In questa città di 148 mila abitanti, di cui 4.700 erano proprietari terrieri (compresi i 3000 nobili residenti), questa ricca borghesia imprenditoriale e commerciale, il cui numero superava certamente il migliaio, rappresentava un vera forza, seguita da vicino dal gruppo dei professionisti: 500 ingegneri e 170 fra avvocati e notai. Milano, dopo il 1840, era la città d’Italia più ricca ed attiva» [405]
«A Milano nel 1838 operavano oltre 100 orologiai, 150 gioiellieri, quasi 400 negozi di seterie e telerie, 65 botteghe di guantai e cappellai, 16 ricamatori, 13 fabbricanti di fiori artificiali, più di 300 sarti e 188 calzolai e “più di 1200 fabbricatori d’ornati di ottone per mobili e carrozze, negozianti e fabbricatori di mobili, fabbricatori di bronzi dorati, pittori di “seconda sfera”, doratori, verniciatori, tappezzieri in carta ed in istoffe” (Otto giorni a Milano ossia guida del forestiere). [406]
«L’anonimo autore della Topografia storica di Milano (1846) denunciava “il lusso, considerato… come l’esagerazione ridicola e voluttuosa dell’agiatezza e delle spese che servono al puro capriccio”, che “ammollisce sempre più li animi, e corrompre nella effeminatezza i pubblici costumi”. Ma secondo Angelo Cossa, che scriveva negli stessi anni, il gusto e la moda, richiedendo frequenti cambiamenti nell’arredamento, avevano effetti benefici, poiché “le classi minori e diremo anche le minime sono oggidì provvedute di decente mobilia, perché a tenue prezzo possono procurarsi i ripudiati arredi signorili”» [407]
Elenco dei mestieri in [408-410]
Dieta in 410
Condizioni delle città in 411
«Su una guida di Milano si mettevano in risalto le iniziative municipali di scavo di fogne e rigagnoli, di spostamento dei macelli e delle maleodoranti fabbriche di sapone lontano dalle città, il divieto di scarico di acque nelle strade. Ma anche a Milano la norma, per i poveri, erano abitazioni sovraffollate e anti-igieniche» [413]
Beneficenza in 414
«La politica austriaca in Italia, già severamente criticata per i duri processi del 1821-24 e per la sanguinosa repressione della rivoluzione del 1831, fu giudicata senza indulgenza alcuna dopo la pubblicazione de Le mie prigioni di Silvio Pellico nel 1832» [420]
«L’acuta rivalità personale fras Metternich e Kolowrat1, ministro degli interni negli anni successivi al 1830, aveva condotto ad una crescente paralisi l’amministrazione centrale sotto il regno di Ferdinando I, il debole sovrano succeduto a Francesco. La qualità dell’amministrazione austriaca in Italia andò peggiorando poiché fu assunto un numero sempre maggiore di funzionari “forestieri” (spesso trentini), e tutte le decisioni furono prese a Vienna con prassi rigorosamente burocratica» [420]
Richieste dei contadini per l’abolizione della servitù della gleba e dei vincoli feudali in Ungheria, Bassa Austria, Storia, Moravia, Galizia [421].
«Il governo (austriaco) fu sordo ad ogni richiesta, ma, nel suo immobilismo, stava perdendo ogni contatto con la realtà, in rapida trasformazione non soltanto in Europa, ma anche all’interno dell’Impero. Il disavanzo cronico delle finanze, ulteriormente accresciuto dalla costruzione delle strade ferrate, era arrivato al punto che gli interessi dei debiti di stato erano quasi pari al gettito totale delle imposte: il governo austriaco cercò di evitare la bancarotta con la drastica riduzione degli stipendi degli impiegati statali e con le economie sulle spese per l’esercito; l’influenza clericale aumentò e i gesuiti furono riammessi in alcune parti dell’Impero, mentre la vecchia aristocrazia feudale giunse ad affermare il proprio controllo sulla pubblica amministrazione. Mentre il “sistema” s’inceppava, l’influenza dell’Austria sull’Europa andava declinando e la subordinazione di Metternich ai voleri dello zar diventava più evidente. Già prima del 1848 la vecchia ostinazione del governo nel combattere l’opposizione si era attenuata».
Rivoluzione commerciale e trasformazioone economica europee in 422 (Zollverein).
Scontento lombardo, perché «il regno italiano sopportava tutto il peso di un’economia stagnante». Cesare Correnti nel 1847: «Il Paese non rifiuta di pagare; non sono i sacrifici pecuniari che lo spaventano, ma sibbene l’ignoranza degli amministratori, la spilorceria per le cose utili, le profusioni per le inutili e le nocive… Sono trentatre milioni ogni anno portati fuori dal paese senza che se ne ottenga altro ricambio che di disprezzo e di insulti. Questi trentatre milioni, uniti alle spoglie opime delle sorelle province venete, sorreggono il moribondo credito dell’impero»2 [423]
«Gli altri stati italiani, economicamente indipendenti dall’impero austriaco, tendevano a gravitare nell’orbita commerciale anglo-francese, ma fu l’Inghilterra che riuscì a incrementarne lo sviluppo commerciale e industriale. Per opporsi alla politica protezionista della Francia, dell’Austria e dei paesi dello Zollverein, l’Inghilterra si sforzò di stipulare in questi anni trattati commerciali bilaterali con gli stati di secondo ordine, che circondavano le maggiori potenze protezionistiche, come primo passo per conquistare il mercato europeo e per sforzare gli stati maggiori (specialmente la Francia) ad abbandonate la loro politica economica» (segue citazione di Cesare Correnti) [424]
1 - Anton, Graf von Kolowrat, in full Franz Anton Kolowrat-Liebsteinsky, graf von (count of) (b. Jan. 31, 1778, Prague, Austrian Empire [now in Czech Republic]—d. April 4, 1861, Vienna, Austria), Austrian statesman, longtime ministerial chief of domestic affairs in the Austrian Empire (1826–48), and the principal political rival of Prince Klemens von Metternich.
A member of an aristocratic Bohemian family, Kolowrat became mayor of Prague in 1807 and, in 1809, Oberstburggraf (governor) of Bohemia. For the next 15 years he directed the administration of that kingdom and cultivated the development of nascent Czech nationalism along cultural lines. Called to head the political section (1826) and later the financial section (1827) of the imperial government, he soon became Metternich’s greatest rival for influence over the Austrian Empire’s affairs of state.
Between the death of Emperor Francis I in 1835 and the revolutionary upheavals of March 1848, the two ministers divided the tasks of imperial administration between themselves, but their rivalry continued. Always somewhat in the shadow of Metternich, Kolowrat became chief minister only briefly during the revolutionary turmoil of 1848 (March–April), being soon forced into retirement for reasons of poor health and advancing age. Though only mildly liberal, he moderated some of the reactionary excesses of the twilight years of the old imperial system.
2 – L’Austria e la Lombardia, 1847. Note: In-8, pp. VIII, 146, legatura coeva m. pelle marrone con titolo, figure di cetre e decori di greche in oro al dorso. Piatti marmorizzati, tagli a spruzzo. 2 tabelle ripiegate f.t. delle rendite e delle spese di percezione negli anni 1844-’46 e delle rendite nette della Lombardia negli anni 1840, 1843, 1844 e 1846. Ottimo stato. Edizione originale; non si conosce l’esatto luogo di stampa del volume, che, tuttavia, fu probabilmente impresso in Svizzera. Il pamphlet, dovuto alla penna di Cesare Correnti, e’ una serena ma impietosa requisitoria contro la dominazione austriaca nel Lombardo-Veneto e conobbe enorme successo, venendo fatto passare clandestinamente di mano in mano e alimentando i sentimenti antiaustriaci delle popolazioni della Lombardia. Il Correnti (Milano, 1815-ivi, 1888), celebre figura di patriota e letterato, nel 1848 fu Segretario del Governo Provvisorio della Lombardia (era stato valoroso combattente durante le Cinque Giornate di Milano), piu’ volte Ministro della Pubblica Istruzione dell’Italia unita, Senatore dal 1886. Parenti, Dizionario dei luoghi di stampa falsi, p. 226. Vismara, 9. Bertarelli, 3926. Rosi, II, 751. Sul Correnti, Tullio Massarani, Cesare Correnti nella vita e nelle opere, Roma, 1890.
RIALL Lucy - Il Risorgimento. Storia e interpretazioni. Traduzione di Pinella Di Gregorio. Donzelli, Roma 1994
Scarsa attenzione dell’analisi storica verso i governi della Restaurazione […] L’opinione liberale raffigurava l’Italia della Restaurazione come un paese dominato dall’alleanza conservatrice fra trono e altare che sosteneva i privilegi clericali e la corruzione religiosa, e gli storici hanno spesso data per scontata la natura di questa alleanza [50]
Tesi: Lombardo-Veneta mucca da latte dell’impero asburgico (Candeloro) perciò «gli argomenti economici spiegano il crescente consenso che il sentimento nazionalista avrebbe avuto in Italia, e diventa altresì chiaro perché l’unificazione italiana dovrebbe essere attribuita alla logica inesorabile della storia. L’unificazione italiana avrebbe fatto parte di una tendenza generale della storia europea che vide il declino degli imperi multinazionali e degli stati regionali, e il generale consolidamento degli stati moderni intorno all’idea di indipendenza nazionale e nazionalità. Il punto di partenza degli studi revisionisti consiste nel rifiuto della distinzione tra progresso e reazione considerata inutile e inservibile» [50]
«Una reazione in piena regola non si ebbe, per brevi periodi, che in poche regioni specifiche: generalmente con scarsi risultati. Inoltre, ricerche recenti hanno mostrato che gran parte dell’opposizione sviluppatasi in questo periodo si fondò non su richieste liberali frustrate, ma sulla resistenza alle politiche più “progressiste” e riformatrici messe in atto nei governi della Restaurazione e, in particolare, alla politica di modernizzazione amministrativa» [51].
IL cattivo governo dell’Austria «leggenda nera» del Risorgimento (Marino Berengo) «Paolo Pezzino ha criticato la vulgata storiografica sul governo dello Stato meridionale, che ha costantentemente trascurato le riforme amministrative introdotte dai Borboni […] Il modello di formazione dello Stato che essi [cioè gli storici revisionisti, ndr] impiegano descrive il processo attraverso cui i governanti degli Stati italiani assegnarono a se stessi compiti di centralizzazione amministrativa e modernizzazione nonché di costruzione di relazioni efficaci con una società civile in rapida crescita. La distrtinzione tra progresso e reazione, considerata negli studi precedenti cruciale per la comprensione del Risorgimento, diventa di scarsa rilevanza per questo modello, che d’altra parte ha rinunciato anche la legame causale tra cambiamento socio-economico e mutamenti della struttura politica. Le fonti di instabilità negli stati preunitari “reazionari” – modernizzazione amministrativa, relazioni tra centro e periferia e relazioni tra Stato e società civile – sono anche i problemi dello Stato liberale italiano». Problemi simili anche nel resto d’Europa [51-52]
«Una volta che i problemi dei governi della Restaurazione sono visti come facente parte dell’esperienza generale europea, l’ipotesi che li vede impegnati esclusivamente sul fronte reazionario viene messa in discussione. Deve inserirsi nel più ampio contesto europeo, per esempio, anche l’utilizzazione della polizia, della censura e della repressione militare come modo di gestione delle agitazioni politiche e popolari. Almeno fino alla metà del secolo, la censura e la repressione militare furono la norma nella maggioranza degli Stati europei; sotto questo aspetto non c’è quindi niente di eccezionalmente reazionario nell’Italia della restaurazione. La formazione di corpi di vigilanza ufficiali o specializzati (in special modo le forze di polizia) in Lombardia, Piemonte, Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie era un lascito dell’era napoleonica, non dell’ancien régime. Per concludere, l’organizzazione di queste forze di polizia in Italia andò di pari passo con analoghi processi che si verificavano in altre parti d’Europa.
«Uno sguardo alle altre economie europee getta una luce differente anche sulle prestazioni economiche dell’Italia dell’età della Restaurazione. In primo luogo, come si dirà nel quinto capitolo, le ipotesi sull’arretratezza economica italiana nella prima metà del secolo comportano un complesso di comparazioni non realistiche con l’Europa industriale del Nord. Il tipo di infrastrutture commerciali ed tecnologiche della cui assenza si lamentavano i liberali italiani era di rado presente in qualche altra area europea. D’altra parte l’uso di alte tariffe protettive era comune alla maggior parte degli Stati europei nella prima parte del secolo. Soltanto nel 1850 la libertà di commercio o gli accordi commerciali bilaterali divennero una caratteristica delle economie europee più sviluppate e resero il mantenimento delle alte barriere tariffarie dell’Italia della restaurazione arretrate e reazionarie. Inoltre l’impiego di una pesante tassazione sui consumi per aumentare le entrate che si dimostrava così impopolare nel Lombardo-Veneto e nel Regno delle Due Sicilie, era una politica diffusa in tutta Europa dove incontrava la medesima opposizione» [52-53].
Esperienze di Vittorio Emanuele I e Francesco IV di Modena che eliminano il personale napoleonico. Altri reazionari autentici Leone XII (1823), Pio VIII e Gregorio XVI (gli zelanti). Condanna del tollerantismo. Sforzi falliti di restaurare l’ancien régime. Prodotto: l’instabilità. Opposizione e in fondo suicidio: «l’amministrazione napoleonica istituita nel nord Italia era stata concepita per garantire una direzione centralizzata e un governo efficiente. Abolendola, i governi della restaurazione distrussero uno strumento vitale di potere e di controllo politico. Il sistema giudiziario e legale del XVIII secolo, restaurato dai reazionari, era già sul punto di crollare prima dell’avvento di Napoleone (Aquarone) [53-54].
«Di fatto in altri luoghi d’Italia, e forse più sensibilmente nel Lombardo-Veneto, si tentò di riconciliare l’assetto istituzionale assolutista con i bisogni dell’innovazione politica. “Amalgama” fu chiamata questa strategia fortemente incoraggiata da Metternich, il quale tentò sempre di impedire che in Italia i reazionari andassero al potere. La politica dell’”amalgama” consisteva nel tentativo di combinare i princìpi dell’assolutismo illuminato del XVIII secolo con la modernizzazione politica e amministrativa dell’età napoleonica per creare quello che gli storici, con un termine preso a prestito dalla Francia napoleonica, hanno chiamato “monarchia amministrativa”. Queste monarchie amministrative erano basate sul principio che una burocrazia moderna ed efficiente e un’amministrazione centralizzata si stavano rivelando elementi decisivi per la costruzione di un potere assoluto. Molti governi della Restaurazione accettarono l’idea che anche lo sviluppo economico potesse divenire un fattore essenziale per la stabilità politica
«Dopo il breve periodo reazionario durante la Rivoluzione del 1814-1815, una politica di questo tipo fu inaugurata dal cardinale Consalvi nello Stato pontificio (prima dell’elezione papale di Leone XII nel 1823) e dai ministri Fossombroni in Toscana e de’ Medici nel Regno delle Due Sicilie. Incoraggiati da Metternich, tutti questi ministri tentarono di creare amministrazioni più uniformi e centralizzate e di tenere conto delle idee e delle innovazioni rivoluzionarie. Venne amalgamato il personale delle amministrazioni napoleoniche e dell’antico regime, nello sforzo di trovare funzionari più leali ed efficienti. A Napoli, nel 1815, il governo austriaco intervenne per bloccare la gestione reazionaria del principe di Canosa e rafforzare la politica di conciliazione e riforme del Medici. Consalvi fece un forte (seppur fallito) tentativo di aprire ai funzionari laici l’accesso alla burocrazia papale. Altre aree di amalgama erano il sistema giudiziario e l’istruzione pubblica. Molti stati si imbarcarono anche in impegnativi programmi di lavori pubblici; i governi del Lombardo-Veneto, Toscana e Regno delle Due Sicilie incoraggiariono la crescita economica in specifiche aree geografiche.
«Alan Reinerman ha descritto come, dopo le rivolte rivoluzionarie nei primi anni trenta, Metternich tentò nuovamente di allargare il sostegno per la politica della Restaurazione in Italia con quella che fu chiamata la “monarchia consultiva”. Proposta per la prima volta alle potenze europee in un Memorandum del 1831, nel quale si sollecitava l’introduzione di riforme amministrative e legali nello Stato pontificio, la monarchia consultiva era basata sul sistema austriaco delle assemblee, già attuato nel Lombardo-Veneto e a Parma. Questo sistema rappresentava una sintesi tra il modello austriaco del XVIII secolo e quello napoleonico. Metternich proponeva di costituire un sistema gerarchico di consigli comunali, provinciali e centrali con il compito di inoltrare le richieste e le opinioni locali al governo centrale. Queste assemblee avrebbero incluso le nuove figure sociali ed economiche così come i portatori degli interessi tradizionali; in tal modo esse avrebbero assolto ad una funzione basata sulla rappresentanza e avrebbero evitato, nella speranza di Metternich, il bisogno di istituzioni più formalmente rappresentative come elezioni e parlamenti. In questo modo la monarchia consultiva costituiva un ulteriore tentativo di modernizzare l’assolutismo politico attraverso una riforma amministrativa interna. Al di fuori del Lombardo-Veneto, gli esperimenti più significativi si verificarono in Piemonte durante il regno di Carlo Alberto e nel regno borbonico dove, durante gli anni trenta, furono effettivamente costituiti consigli sulle linee proposte da Metternich. Dopo l’elezione di papa Pio IX nel 1846, un consiglio di stato fu istituito anche nel Regno della Chiesa» [55-56].
Perdita di potere della Chiesa anche in Lombardo-Veneto e nel Regno delle Due Sicilie [57, ricerche di Chadwick]
«I riformatori conservatori degli stati preunitari furono sconfitti non per una resistenza al cambiamento maz perché non furono in grado di costruire un’efficace via di mezzo tra reazione e rivoluzione» [58].
«Un sintomo della crisi della politica dell’”amalgama” in questi stati fu l’incapacità dei riformatori conservatori di portare a termine un valido processo di riforma dell’amministrazione pubblica. Marco Meriggi ha sostenuto che l’espulsione degli “uomini nuovi” dell’era napoleonica della burocrazia lombarda, con la conseguente destinazione delle alte posizioni nell’amministrazione ai membri dell’aristocrazia, aumentarono fortemente l’impopolarità del regime asburgico tra la borghesia. D’altra parte la nobiltà si aspettava molto di più dal governo austriaco. In tal modo, afferma Meriggi, cercando di mediare tra interessi borghesi e aristocratici, ciò che risultò compromessa fu proprio l’efficienza dell’amministrazione. Il sistema delle assemblee consiliari in particolare non soddisfece nessuna delle due classi […] nella crescita dei movimenti rivoluzionari, i sentimenti liberali e/o gli interessi di classe hanno avuto un ruolo meno importante del risentimento regionale e delle tensioni amministrative tra centro e periferia […] Pezzino ha dimostrato che il potere politico reale nel Sud era nelle mani dei notabili locali, i quali addirittura riuscirono a rafforzare le proprie posizioni contro il governo centrale attraverso l’incorporazione di elementi borghesi e la manipolazione della legislazione riformatrice. Così, nonostante i forti conflitti all’interno delle comunità, quello che John Davis chiama “l’esercizio privato del potere pubblico” rimase una catatteristica fondamentale dello sviluppo politico e sociale del Mezzogiorno. Tutti questi fattori fanno pensare che la “reazione” poteva essere meno impopolare della “modernizzazione […] Se i liberali erano colpiti dalla sorveglianza della polizia, altri gruppi erano allo stesso modo allarmati dall’incapacità di molti governi di garantire la pubblica sicurezza, difendere la proprietà e proteggere realmente la gente. In alcune aree dove si verificavano frequenti proteste popolari (nei latifondi meridionali e siciliani, e nella pianura veneta) i detentori del potere locale tendevano a chiedere un aumento, e non una diminuzione, della repressione» [58-59]
Problema del «modo in cui le decisioni del governo centrale venivano eseguite dai rappresentanti locali». «Il ruolo avuto da burocrazie inefficienti e da una serie di crisi finanziarie non risolte può essere stato ben più importante nel destabilizzare i governi della Restaurazione che non la frustrazione delle richieste di riforme da parte liberale. Inoltre se consideriamo l’esempio del Lombardo-Veneto come indicativo di una situazione più generale, allora si può dire che i problemi burocratici e finanziari ostacolarono il processo decisionale all’interno dello stesso governo centrale. Laven ha dimostrato come, nel caso di Venezia, i dibattiti sulla riforma potevano diventare interminabili e come l’attività concreta fosse spesso frustrata dalla mancanza di informazioni adeguate. Sotto questo aspetto forse è vero che l’assenza di canali più istituzionalizzati di rappresentanza (attraverso elezioni e parlamenti), o la libera stampa, fu di gran lunga il problema principale. Il processo di “consultazione” della società nell’Italia della Restaurazione era lento, inefficiente e di solito non realmente rappresentativo; i governi erano incapaci di dare risposte efficaci ai nuovi interessi economici perché non sapevano in cosa essi consistessero. Il sistema dei consigli (che in pratica erano spesso dominati dalla vecchia nobiltà) sembra avere prodotto un’eccessiva burocratiuzzazione piuttosto che un’amministrazione centrale responsabile e moderna». I conservatori fecero ben poco per organizzare i contadini «loro tradizionale base di sostegno» [60].
Due fattori: la crisi economica e cambio di clima internazionale «che favorì i movimenti liberal-nazionali e indebolì la legittimità dei governi della Restaurazione» [62].
«Il Piemonte ebbe il vantaggio, sconosciuto agli altri governi della Restaurazione, di una relativa indipendenza dalla Francia e dall’Austria. Questa indipendenza diede allo stato piemontese l’opportunità (largamente sovrastimata da Carlo Alberto nel 1848-49, ma usata con intelligenza da Cavour negli anni Cinquanta) di attirare il sostegno nazionalista verso il governo grazie a una politica estera anti-austriaca». Il programma di riforme di Carlo Alberto si guadagnò un certo sostegno da nobili liberali e classi medie e questo «si tramutò anche in fedeltà alla monarchia sabauda». [62-63]
L’amalgama di Cavour fra assolutismo e liberalismo (il giusto mezzo) [63]. «Erano essenziali una costituzione che ponesse limiti legali al potere assoluto, e un parlamento che assicurasse una rappresentanza reale. Fu precisamente questa alternativa costituzionale, incarnata dal Piemonte, che determinò la caduta dei regimi della Restaurazione nel resto d’Italia. In un certo senso si potrebbe dire che l’Italia della Restaurazione riuscì a riformarsi come Piemonte liberale, il quale sopravvisse rimodellando le strutture del resto della Penisola secondo la sua immagine politica» [63]
Le «riforme a brandelli» dei riformatori conservatori negli Stati restaurati [64]
«Ad ogni modo il fallimento della riforma conservatrice in Italia prima del 1860 significò che il compito dei liberali del Risorgimento non era semplicemente quello di cacciare i “nemici” della libertà e della nazione. Una volta assolto questo compito, essi dovevano anche risolvere le contraddizioni politiche che avevano sommerso gli stati della Restaurazione. In questo senso, la soluzione di un’Italia unita non era una vera soluzione. I liberali erano riusciti, in realtà, a costruire un vasto ma superficiale consenso in favore delle riforme: dovevano ancora rendere saldi e stabili i legami tra il nuovo Stato e la società civile, trovare forme coesive di sostegno sociale e affermare all’estero l’indipendenza italiana. Dovevano superare localismi e regionalismi che avevano minato le iniziative riformatrici in molti degli Stati più piccoli prima del 1860, dovevano formare un nuovo complesso di istituzioni nazionali, e costruire un chiaro senso di identità nazionale. Infine, dovevano in qualche modo riparare alla rottura estremamente dannosa con la Chiesa, conseguenza diretta dell’unificazione italiana. In questo modo le battaglie politiche interne che stavano al centro del Risorgimento furono anche, e forse soprattutto, una battaglia contro le realtà stesse dell’Italia» [64]
Kent Greenfield sostenne «che il più forte impulso al Risorgimente nel Lombardo-Veneto non venne dalla borghesia, ma dai proprietari terrieri e dagli intellettuali, che spesso erano aristocratici». Secondo G. la prova dell’immobilismo imprenditoriale lombardo stava nella tendenza «dei borghesi a investire sulla terra, tradizionale fonte di potere e di status. Questi mercanti rimasero, nelle parole di David Lo Romer, “in larga misura passivi in un mondo che stava cambiando”» [66].
«Gli studi sulle classi medie nell’Italia centro-meridionale, pubblicati nel periodo post-bellico, confermarono la tendenza borghese a mantenere stretti legami con la terra e adottare verso il cambiamento un atteggiamento ostile» [66]
Borghesia? «Prima di tutto un gran numero di ricerche sulle classi medie in Europa ha svelato l’enorme diversità delle attività borghesi e dei “tipi” di borghesia. Il termine “borghese” non si riferisce più semplicemente a un’attività economica e, in particolare, al coinvolgimento in un’attività industriale. Al contrario, il termine è spesso usato per definire uno status o descrivere un complesso di idee o di norme culturali. In questa definizione più ampia di classe media, maggiore attenzione è prestata al ruolo delle professioni, o più generalmente al mondo non imprenditoriale nel promuovere valori o interessi delle classi medie. L’attenzione alla “piccola borghesia” ha dimostrato a sua volta l’esistenza di gerarchie interne e di differenti attività tra i ranghi delle classi medie. In Italia con il termine “borghesia” ora ci si riferisce più spesso ai “ceti medi”, una categoria che fa riferimento allo status piuttosto che alla funzione economica. Allo stesso modo è possibile parlare di “notabili” o di “classi dirigenti”, anch’esse categorie non economiche che non tracciano alcuna rigida distinzione tra aristocrazia e ceti medi. [68]
Le classi medie «più biasimate che studiate» (John Davis).
«…un approccio che dà risalto all’ampiezza e alla differenziazione dei “ceti medi” italiani evitando di privilegiare i gruppi politicamente coinvolti in area liberale o patriottica. Invece di essere valutate come “classe dirigente”, le azioni delle classi medie italiane sono ora viste come parte di un processo più ampio di cambiamento e modernizzazione. In questo contesto il legame tra classi medie e unificazione italiana sembra alquanto tenue. Inoltre gli elementi di continuità tra le attività, gli atteggiamenti e i comportamenti dei ceti medi risorgimentali e quelli del periodo successivo all’unificazione sembrano pesare assai più delle discontinuità.
«Un importante fonte di potere e status, sia nel periodo della Restaurazione che nell’Italia liberale, fu rappresentata dallo Stato. Marco Meriggi afferma che, in assenza di un processo di industrializzazione, il tentativo di fondare sistemi amministrativi e giuridici moderni fu il fattore più rilevante di cambiamento sociale del periodo. In Italia, suggerisce, emerse una “borghesia umanistica” formata da differenti gruppi locali, legati insieme soltanto dalla loro partecipazione alle istituzioni pubbliche. L’impiego nella burocrazia fu una fonte di informazione sociale, specialmente per i laureati, e alla lunga fornì una base alla formazione in Italia di una classe di professionisti.
«Comunque, giacché la maggior parte degli Stati della Restaurazione continuò a restringere l’accesso agli alti ranghi della burocrazia, opportunità di impiego più significative furono probabilmente offerte dalle amministrazioni locali. Forse soprattutto in Italia meridionale e in Sicilia l’impiego nelle amministrazioni locali e il coinvolgimento nella politica locale rappresentarono un importante metro dello status e della mobilità sociale. Per un gran numero di laureati usciti dalle università meridionali, e spesso anche per commercianti e proprietari terrieri, una posizione nell’amministrazione locale era il mezzo più facile per acquisire, ricchezza, status e sicurezza. I poteri assegnati alle amministrazioni locali – il controllo delle tasse, i lavori pubblici, le cariche burocratiche e, decisiva, la ripartizione delle terre comunali – offrirono a chi governava notevoli possibilità di patronage e di arricchimento privato. Giarrizzo mostra come la borghesia provinciale dell’Italia meridionale fu capace in questo periodo di costruire autonome fonti di potere ricoprendo ruoli amministrativi locali. I lavori di Alberto Banti e Maria Malatesta sulle élites agrarie nella valle Padana dopo l’unificazione indicano come e quanto, anche al Nord, il coinvolgimento nella politica locale fosse un mezzo vitale per stabilire reti di potere e influenza. Così in qualche misura in molte parti d’Italia la mobilità sociale derivò più dal mutamento politico che da quello economico. La storiografia revisionista non esclude del tutto l’influenza delle trasformazioni economiche sulle strutture sociali, ma tenta invano di indicare come tutti questi differenti processi abbiano interagito tra loro, focalizzando l’analisi prevalentemente sul contesto locale o regionale. La politica e le professioni, nonché l’agricoltura, il commercio e l’industria, rappresentano le basi, sovrapposte, della formazione delle nuove élites. La più evidente manifestazione di questi cambiamenti fu la trasformazione della proprietà terriera. Il rapido declino della nobiltà veneziana durante e dopo il XVIII secolo portò al trasferimento di terra su larga scala dalle mani dei mercanti, banchieri e rentiers. In Sicilia una crisi simile tra i ranghi della vecchia aristocrazia comportò l’acquisto di una crescente quantità di proprietà terriere da parte dei loro antichi esattori. La vendita dei beni demaniali e della Chiesa incrementò anche la quantità di fondi disponbili sul mercato. Così, in centri commerciali come Milano e Torino, e in porti come Livorno o Catania, ricchi mercanti acquistavano proprietà terriere come mezzi per raggiungere status e sicurezza sociale. Per simili ragioni, ricchi burocrati e avvocati anche nelle principali città amministrative tendevano a investire ampiamente nell’acquisto di fondi» [69-71].
«In particolare Milano si affermò come uno dei principali centri culturali e intellettuali del tempo, e la sua vivacità portò molti contemporanei a paragonare la città a Parigi» [72]
«In assenza di una reale rappresentanza politica, crebbe spesso uno spazio pubblico parallelo, basato su club e giornali, Secondo Banti e Meriggi avvenne un “profondo mutamento nei modi di articolazione degli spazi sociali”. Questa “sfera pubblica”, laica e borghese, cresciuta rapidamente durante gli anni Trenta e Quaranta, ruotava attorno ai club, ai caffè, ai teatri e alla stampa, piuttosto che fondarsi sulla famiglia, la comunità e la Chiesa, e fornì ai membri delle varie élites l’opportunità di incontrarsi e mescolarsi in un ambiente nuovo» [72].
Le resistenze dell’aristocrazia – specie nei piccoli centri come Parma, Lucca, Pisa – impedì troppa mobilità sociale. A Roma e Palermo «la piccola borghesia fu incapace di entrare in contatto con l’aristocrazia che seppe custodire gelosamente i privilegi e il potere che le rimanevano. Un osservatore ostile scrisse nel 1838 dell’atmosfera “feudale, corrotta e arrogante” di Palermo, mentre trent’anni più tardi un altro commentatore parlò sprezzantemente dell’“insana ossessione” della nobiltà di possedere belle carrozze» [73].
«Si sa molto bene che la costituzione di nuove istituzioni amministrative, nel primo periodo della Restaurazione, divenne il centro di un considerevole malcontento da parte delle classi medie. In alcuni casi di rilievo questo malessere si trasformò in un’opposizione liberale attiva contro i regimi esistenti. Come abbiamo detto nel capitolo precedente, le restrizioni alle possibilità d’impiego nella burocrazia introdotte dagli austriaci nel Lombardo-Veneto, e il tentativo fatto in Piemonte di epurare l’esercito dei suoi elementi liberali, diede una spinta ai movimenti liberali di opposizione del Nord Italia» [74].
Sui mutamenti del periodo della Restaurazione. «Secondo Enrica Di Ciommo, un effetto delle riforme amministrative borboniche nel Mezzogiorno fu quello di rafforzare la coesione delle comunità nel momento in cui combattevano per resistere al cambiamento. Questa solidarietà però si sgretolò rapidamente non appena le nuove élites commerciali o terriere entrarono in competizione con la vecchia classe dominante per la spartizione delle risorse e dei privilegi assegnati dal governo centrale. In molte parti del Mezzogiorno questi tipi di conflitto provocarono esplosioni di violenza all’interno delle comunità. In particolare quando si verificarono tumulti popolari – per esempio durante le rivoluzioni del 1820, del 1848 e del 1860 – i membri delle nuove élites tentarono di prender con la forza il controllo dell’amministrazione locale. Le Guardie nazionali costituite durante le rivoluzioni liberali del 1848 e del 1860 furono qualche volta usate come eserciti privati per sostenere o imporre rivendicazioni politiche in conflitto.
«Le rivalità personali ebbero dirette conseguenze nella sfera pubblica. Giovanna Fiume ha mostrato come, in Sicilia, entrambi gli schieramenti usarono i banditi per sostenere le proprie rivendicazioni politiche e per proteggere o incrementare proprietà e ricchezze. I banditi furono “impiegati” dalle famiglie più potenti per vendicarsi dei nemici, rubare bestiame e generalmente per accumulare ricchezze. In questo modo il banditismo fu legato alla politica e agli interessi di classe e divenne endemico in molte aree rurali della Sicilia. Dietro ogni bandito, si disse, “c’era sempre la figura di un nobile, un sindaco o un capo della polizia”. Questa situazione produsse instabilità politica, violenze e lotta tra fazioni piuttosto che movimenti di opposizione di segno liberale» [75]. Su questo vedi anche in 81.
«Se a un estremo i ceti medi e l’aristocrazia di Milano si mescolavano socializzando nei teatri, nei club e nei caffè, all’altro estremo nelle città isolate e nei villaggi della Sicilia occidentale, élites in competizione combattevano l’una contro l’altra, usando tutte le armi a disposizione. Ancora oggi non è chiaro perché i mutamenti strutturali produssero élites violente in Sicilia e forme di sociabilità a Milano, sebbene Paolo Pezzino abbia sostenuto che queste differenze si debbano imputare più alle relazioni politiche che a tendenze sociali o culturali. Ciò che appare chiaro è che nella maggior parte d’Italia il liberalismo non andò di pari passo con lo sviluppo di una società più borghese» [75].
«I problemi sociali erano il risultato di una rapida urbanizzazione e di un aggravamento della povertà rurale» [76]
«Lo smantellamento delle strutture feudali portò a cambiamenti nei diritti di proprietà e allo sviluppo di nuove classi agrarie. Una conseguenza importante di questi mutamenti fu la rapida erosione dei diritti consuetudinari sull’uso delle terre comuni goduti dai contadini. In Italia questo processo avvenne assai rapidamente e può essere messo in relazione alla diffusione dei tumulti popolari. Uno dei diritti più importanti era quello di pascolare il bestiame sulle terre comuni. Altri riguardavano il diritto di accesso ai rifornimenti d’acqua (particolarmente importante nel Mezzogiorno) ai boschi per la raccolta di legna e, nelle terre umide della costa, alle paludi per raccogliere canne e paglia. Questi diritti, spesso insieme con le migrazioni stagionali, sostentavano le comunità rurali povere e proteggevano i loro abitanti dall’indigenza.
«La recinzione delle terre comuni e la loro conversione in terre date in affitto o in proprietà, insieme all’abolizione dei diritti di foraggio e pascolo, portarono a cambiamenti repentini nelle campagne italiane. L’erosione dei diritti d’uso sulla terra fece spesso crescere una differenziazione interna alle comunità rurali. In alcune regioni, i contadini poterono acquisire una parte della terra in affitto. È interessante notare che nelle colline piemontesi, e in altre aree montuose, emerse una classe di piccoli proprietari contadini distinti dai poveri lavoratori senza terra. In altre aree se gli agricoltori furono in grado di comprare la terra, in seguito mancarono loro i mezzi economici per renderla remunerativa. In generale questi contadini analfabeti e senza alcun capitale per migliorare la conduzione della terra si indebitarono rapidamente. Furono forzati a vendere agli speculatori che, a loro volta, rivendettero ai grandi proprietari terrieri. In tal modo, spesso l’effetto più eclatante di questi cambiamenti fu la creazione di possedimenti che non erano mai stati così grandi nelle mani di singoli proprietari. Nelle aree di intensa attività commerciale, come nella pianura lombarda, una classe di braccianti prese il posto dei mezzadri.
«Nella pianura lombardo-veneta, la perdita dei diritti sulle terre demaniali si risolse in un pesante deterioramento della posizione economica dei contadini. Piero Brunello ha mostrato come la decisione del governo austriaco nel 1839 di dichiarare tutte le terre comuni non coltivate disponibili per l’acquisto dei privati assestò un colpo mortale a molte comunità rurali. In particolare, secondo Brunello, il decreto colpì i contadini poveri il cui sostentamento dipendeva dalla caccia, dalla pesca e dalla raccolta di canne nelle enormi distese paludose non coltivate della costa veneziana. Con i progressi nelle tecniche di bonifica e drenaggio di queste terre, un’area a lungo deserta divenne attraente per potenziali investitori e fu rapidamente recintata, prosciugata e coltivata. Nel Lazio, le recinzioni distrussero le vie della transumanza e accentuarono il conflitto tra gli agricoltori e i mandriani “boattieri”. La sopravvivenza di questi ultimi, un gruppo spesso potente all’interno delle comunità del latifondo meridionale, fu seriamente minacciata da questi cambiamenti. Tensioni simili si riscontrano in tutto il Mezzogiorno e nelle isole» [77-78]
Inoltre: crescita della popolazione, indebitamenti contadino, contadini costretti a pagare ai nuovi proprietari tassi d’interesse da usura, «cosa che mai i precedenti proprietari aristocratici avevano fatto». Contadini di tutt’Italia intrappolati «in un ciclo senza fine di povertà e rimborso debiti, una situazione dalla quale non era possibile fuggire» [78].
Benevolenza dei contadini veneti al ritorno degli austriaci (1849), ostilità nel Lazio per le taverne frequentate da “forastieri” [79]
Non sottovalutare la fedeltà dei contadini alla Chiesa, le comunità locali erano spesso dominate «dal controllo morale dei parroci e dalla loro influenza nel settore della beneficenza e dell’istruzione». Fedeltà verticale alla Chiesa e allo Stato, impossibilità di un conflitto di classe. Nel Lazio «è impossibile distinguere il conflitto di classe dalle fedeltà personali, dalle fazioni locali, dalle tensioni comunitarie o anche dai conflitti generazionali» [79]
Le tensioni locali «sembrano implicare l’impossibilità della formazione di una qualunque forma di movimento nazionale»
Invece di protestare i contadini poveri si trasferivano in città (vedi Levra). «La popolazione di Milano, centro industriale più importante di Torino, comprendeva anche una significativa quota di lavoratori occasionali e un numero molto alto di negozianti e artigiani. Persino gli operai del settore tessile in via di industrializzazione (la maggior parte dei quali erano donne) fino agli anni cinquanta lavoravano a casa e venivano solitamente pagati part-time» [81-82]
«Il disagio di queste classi affamate e marginali fu accresciuto dall’introduzione di riforme economiche quali l’abolizione del controllo sui prezzi degli alimenti» [82]
Considerazioni sulla condizione femminile in 82 e seguenti.
«Dietro le sommosse popolari che scoppiarono con successo a Palermo, Milano, Venezia, Livorno e Roma nel 1848-49 c’erano gli artigiani». Mancano studi. Ipotesi: «In Italia, sebbene forse meno che in altre parti d’Europa, i mercati per i beni artigianali si restrinsero a causa dell’afflusso di più economici manufatti industriali. Fin dal 1820 gli artigiani di Palermo difendevano i propri privilegi corporativi colpiti dalla legislazione del governo borbonico, e quindi per mantenere i propri livelli salariali, erosi giorno per giorno dalla concorrenza proveniente dal lavoro rurale a basso costo. Per mantenere il loro livello di vita, gli artigiani diventarono sempre più dipendenti dalla domanda di beni di lusso dei ricchi o dal desiderio della borghesia di emulare lo stile aristocratico. Quindi diventarono particolarmente vulnerabili ai cicli economici. In contrasto con le “classi pericolose” marginali essi possedevano ancora nelle loro organizzazioni corporative i mezzi per protestare e tentare di distruggere la nuova “società borghese”» [84-85].
«La gran parte delle strutture [di beneficenza] disponibili – ospedali, ospizi, cucine economiche o pegni - era offerto dalla Chiesa e rappresentava uno dei mezzi attraverso cui la struttura ecclesiastica manteneva il suo potere all’interno delle comunità dei poveri». Sfidata dalle iniziative dei privati cittadini [86].
Non c’è legame tra sviluppo politico e crescita economica [103]
La guerra del 1859 come «un incidente preparato con cura» [108].
«Lo sviluppo di un approccio “non politico” al Risorgimento, che ha sottolineato l’impatto di lungo periodo sulla politica risorgimentale del cambiamento economico e sociale, ha da parte sua confermato la valutazione negativa dell’unificazione italiana e la tendenza a minimizzare il ruolo del nazionalismo» [108]
«I revisionisti tendono a svalutare l’unificazione nazionale, e la vedono soltanto come un possibile esito tra tanti; sottolineano anche la continuità tra le battaglie politiche combattute nell’età della Restaurazione e quelle dell’Italia liberale, una continuità che può essere attribuita ai conflitti risultanti dal processo della formazione dello Stato … La persistente instabilità politica dell’Italia del XIX secolo è stata causata più da forme di resistenza al mutamento politico o economico, che a un’insoddisfatta richiesta di trasformazione» [109-110]
«Il nazionalismo come effetto e non come causa della formazione dello Stato-nazione» [110]
«È chiaro che non i movimenti nazionalisti crearono l’Italia unita, bensì il Piemonte» [110]
Popolarità del nazionalismo solo tra le élites colte [110]
«Senza il riferimento al nazionalismo e a quello che Raymond Grew chiama “la grande battaglia per mobilitare la pubblica opinione” è impossibile spiegare come e perché Cavour riuscisse, o fosse costretto, a unire l’Italia nel 1860». [110-111]
«Una conseguenza duratura delle rivoluzioni risorgimentali fu lo sviluppo di una mitologia nazionalista costruita attorno ai suoi eventi più cruciali e ai suoi personaggi più eminenti. Le vicende delle cinque giornate di Milano, la difesa di Garibaldi della Repubblica romana e la ritirata del suo esercito attraverso gli Appennini nel tentativo di difendere Venezia contro l’armata austriaca, sono tutti ricordati come eventi di straordinario eroismo. Dopo la difesa della Repubblica romana, Garibaldi acquisì una posizione particolare tra i protagonisti del Risorgimento diventando la personificazione dell’ideale nazionale; cosicché anche i successi militari dell’esercito garibaldino sono stati in parte attribuiti alla sua capacità di ispirare devozione personale tra i seguaci. È abbastanza difficile credere che la spedizione di Sicilia del 1860 avrebbe potuto avere un esito positivo senza il suo carisma e senza l’entusiasmo nazionalista dei volontari garibaldini» [113]
«Un elemento importante dell’attrazione verso il nazionalismo in quegli anni fu dovuto al fatto che esso sembrava offrire una spiegazione semplice al “fallimento” dell’Italia – la divisione imposta dall’Austria e in generale dai governi reazionari, le divisioni tra italiani e tra liberali – e una soluzione altrettanto semplice: l’unità nazionale. Come ideologia, il nazionalismo offriva ai moderati molti vantaggi. In gran parte d’Europa, l’opinione pubblica liberale aveva iniziato a sostenere l’autodeterminazione dei popoli e gli stati nazionali come modello per lo sviluppo politico. Cavour e altri leader moderati come Ricasoli e Minghetti videro nel discorso politico del nazionalismo un mezzo per rafforzare la diversità degli interessi dell’Italia settentrionale contrapponendoli a quelli austriaci. Specificatamente per i moderati, spesso più interessati agli aspetti economici che a quelli politici, il nazionalismo offriva una significativa opportunità di farsi promotori di uno sviluppo economico separato del Nord Italia» [114]
«`La svolta dello stato piemontese e dei liberali moderati verso il nazionalismo politico laico alterò radicalmente la dinamica interna del movimento nazionale. Come compresero molti mazziniani, l’accettazione degli interessi dell’Italia da parte dei moderati offrì al movimento nazionalista un’opportunità unica. Per la prima volta un gruppo politico al potere era pronto a promuovere la questione nazionale, anche se per motivi contingenti e in termini che insistevano più sull’indipendenza che sull’unità. Come risultato dell’attività politica di Cavour negli anni Cinquanta, il nazionalismo acquisì grande rispettabilità fino a venire collegato alla stabilità politica piuttosto che ai tumulti reazionari» [115]
SILVA Pietro - Il 1848. Faro, Perugia 1948.
«Come si poteva a lungo sopportare il fatto che per andare da Pavia a Pontelagoscuro si dovevano superare cinque barriere doganali, e sette per andare da Mantova a Parma su un percorso di 34 km?» [73]
Da FRAMMENTI
Per i funerali di Confalonieri vedi anche Bersezio volume III
A Milano, alla vigilia delle Cinque Giornate, Brioschi fa parte del gruppo di giovani che si riuniscono a casa di Gabrio Piola per discutere e aggiornarsi sui più recenti sviluppi della matematica d’Oltralpe. Piola, come il cognato Gabrio Casati, appartiene a quella intellettualità cattolica di cui fa parte anche Alessandro Manzoni. Brioschi è tuttavia lontano dalle convinzioni filosofico-religiose del maestro e manifesta pubblicamente la sua fede laica e repubblicana [1387689]
Lo scrittore, convinto che l’investimento culturale strategico sia principalmente quello nell’immaginario, l’unico capace di spostare montagne e alzare barricate (come durante le Cinque Giornate di Milano, quando le pagine del Berchet e i quadri di Hayez pesarono più della potenza militare di Radetzky). [197720]
Poi Verdi acquista coscienza politica, nel marzo radioso del ”48 s’infiamma per le Cinque giornate, è repubblicano (a Piave: «Sì, sì, ancora pochi anni, ancora pochi mesi e l’Italia sarà libera, ma repubblicana: cosa dovrebbe essere?») e scrive la sua unica opera programmaticamente patriottica, La battaglia di Legnano, con Mazzini e Garibaldi ad applaudire la «prima» all’Argentina durante la Repubblica romana. [196428]
Grossi ha il carattere «caro e buono» del confidente ideale. In gioventù aveva frequentato la Cameretta, cioè il giro di amici del Porta, di cui ammirò come nessun altro il «talent inscì foeura de misura». Forse inizialmente fu questa ammirazione a indurlo a scrivere versi in dialetto, tra cui La Prineide, un poema satirico che rievoca il linciaggio del ministro delle Finanze del Regno d’Italia Giuseppe Prina nel 1814. E che in veste di visione si presenta come un violento atto d’accusa contro il governo austriaco: Stendhal la definì «la migliore satira che mai la letteratura abbia prodotto nell’ultimo secolo».
Il componimento ebbe una fortuna clandestina immediata in forma anonima e manoscritta, e scatenò la feroce istruttoria austriaca. I sospetti caddero subito su Carlo Porta, che venne convocato dalla polizia e aspramente rimproverato per l’imprudenza e il «poco savio contegno». Ma furono perquisite le case di molti personaggi in odore di sedizione, tra cui anche l’abate Carlo Alfonso Pellizzoni. La promessa di Porta alla polizia, ma anche a se stesso, di dedicarsi a «studi meno pericolosi» non verrà mantenuta a lungo. L’amico Grossi, nel frattempo, non fa una gran bella figura: per ben due volte nega la paternità della Prineide,
sostenendo di averla «avuta per strada da un certo Francesco Viglezzi», fratello di un suo compagno di studi, poi vistosi accerchiato dalle indagini, dopo aver subito una perquisizione e dopo aver passato qualche giorno in camera di sicurezza tra minacce e altri interrogatori, confessa, aggiungendo però che la circolazione anonima aveva aggiunto espressioni ingiuriose di cui lui non era responsabile. La vera paternità del poema dialettale è rimasta a lungo incerta, e la sua notevole qualità poetica ha fatto pensare, fino ad anni recenti, che si trattasse davvero di un’opera di Porta. Ora però l’attribuzione al Grossi viene ulteriormente confermata da un paio di lettere del Giusti: quelle degli anni ’44 e ’45 in cui il poeta toscano allude alla lettura della Prineide («una vera gemma di doppio valore per me») come motivo di simpatia per Tommaso. Una copia dell’opera, per altro, gli fu inviata dalla moglie dello stesso Grossi [118612]