Libro "Quarantotto" ecc (vedi scheda bibliografica), 29 novembre 2010
Argomenti di: Quarantotto, a cura di Umberto Levra e Rosanna Roccia «In quel sistema produttivo le retribuzioni minime per gli operai (stato che si conseguiva dopo non meno di tre anni di apprendistato) andavano dalle 3 lire settimanali per gli addetti ai panifici, alle 10 lire dei gioiellieri
Argomenti di: Quarantotto, a cura di Umberto Levra e Rosanna Roccia «In quel sistema produttivo le retribuzioni minime per gli operai (stato che si conseguiva dopo non meno di tre anni di apprendistato) andavano dalle 3 lire settimanali per gli addetti ai panifici, alle 10 lire dei gioiellieri. Le retribuzioni massime invece andavano dalle 7 lire sempre per i panettieri alle 21 lire dei tipografi compositori. Se si considera che la spesa media giornaliera di puro sostentamento per una famiglia di 4 persone si aggirava attorno alle lire 1,80, appare evidente come solo pochi capifamiglia fossero in grado di sfamare moglie e figli» (Pier Luigi Bassignana, 27) «Il caffè Madera batteva tutti i suoi compagni per istraordinaria abbondanza di giornali: ne contava la bellezza di centodieci» (Carrera, cit. da Gambarotta, 33) «Il Calosso o il Caffè della Lega Nazionale era il locale frequentato dai progressisti e dai radicali, il più noto tra i caffè che marchiavano i clienti come reazionari era il già citato Fiorio in via Po, universalmente conosciuto come il “caffè dei codini”, o “caffè d’l cue” o più brutalmente caffè Radetzky» (Gambarotta, 37) Carlo Alberto che apriva le udienze del mattino con la domanda: «Qu’est-ce qu’on dit au Cafè Fiorio» (Mario Gromo, citato da Gambarotta, 37). Il caffè dei carbonari era il Caffè del Progresso, nel posto «dove ora c’è l’albergo Verdi» fondato dal marchese Carlo Birago di Vische, sorto nel 1831 «in mezzo ai prati del borgo della Vanchiglia, in contrada della Zecca (via Verdi). A forma di scafo di nave, progettato dall’architetto Alessandro Antonelli. Una botola al centro del pavimento conduceva a due sale sotterranee poste due piani sottoterra. Al piano terra non c’era mai nessuno salvo un cameriere sonnolento (Gambarotta, 38) Rigorose proibizione al Teatro Regio del 24 dicembre 1847: «si previene il Pubblico che resta assolutamente proibita qualsiasi clamorosa dimostrazione, come pure di cantare inni, introdurvi bandiere, fischiare o prolungare gli applausi da interrompere il corso delle rappresentazioni». Il Carignano in festa il 3 novembre 1847, tra lo sventolare di «rubiconde e azzurre bandiere segnate dalla croce dei Savoia». Indifferenza per la Semiramide di Rossini, intanto in scena (Parvopassu, 43) Ballo nazionale il 17 gennaio 1848, bandiere rosse e azzurre listate di bianco, donne vestite sempre con un bianco-rosso-verde oppure mazzetti di fiori bianchi e gialli «italianamente devote» (Pio IX) (id, 44). Modifiche ai cartelloni in 44 e seguenti. I capocomici omettevano il nome dell’autore quando l’opera nuova era «merce forestiera» (id, 45) A febbraio andò in scena la commedia “Le prime armi di Richelieu” di Dumanoir e Bayard, che in precedenza era stata vietata dalla censura. Le cronache telegrafiche de “L’Opinione” tratteggiavano così la serata: «La platea ed i palchi riboccavano di gente. Gli attori a mano a mano che venivano sulle scene erano applauditi. Essi portavano la coccarda turchina. Terminata la commedia si gridò “Viva il Re! Viva la Costituzione!». Poscia s’intuonò l’inno di Mameli. Da alcuni palchi si facevano sventolare le bandiere. In segno di concordia e di fratellanza le signore torinesi intrecciarono i fazzoletti. Gli applausi furono strepitosissimi”. Il giorno seguente tuttavia, nelle Notizie del mattino dello stesso giornale, si leggeva che uno dei tre direttori dei teatri, “troppo geloso del colorito storico, o troppo timoroso” aveva vietato agli attori di comparire sulla scena con la coccarda azzurra» (id, 46) Lista di drammi messi in scena dalla Compagnia reale sarda che coincidono con l’idea nazionale in 46. Il pianista Fumagalli che la sera del 12 marzo, al Carignano, eseguì “Fratelli d’Italia” e “Coll’azzurra coccarda sul petto” «colla voluttà di un vergine patriottismo intrecciava i due inni, ne faceva germogliare i suoi diversi contemporaneamente, onde significare la consonanza dell’Italia cantata da Mameli col Piemonte cantato dal Bertoldi» (Luigi Cicconi ne Il Mondo illustrato, id, 48). Sipario disegnato dal Gonin per l’inaugurazione del Teatro Nazionale nell’attuale via Pomba il 24 aprile 1848: «su un carroccio trainato da cavalli si ergeva l’Italia turrita attorniata da quattro donne simboleggianti Roma, Napoli, Torino e Firenze, ognuna con il proprio stendardo e statuto. Da lato si librava la stampa libera, che ordinava “ai geni dei giornali di cacciar via certe furie che sono i pregiudizii e le male idee funeste alla società ed al progresso” (Cicconi); tutt’intorno il popolo festeggiava il cammino trionfale del carro, guidato da giovani in abiti medievali» (id, 48). «L’obbligo di chiusura dei teatri il venerdì veniva aggirato sempre più frequentemente con l’allestimento di spettacoli di beneficenza destinati alla causa nazionale» (id, 48). «L’aristocrazia protesta contro il risorgimento italiano abbandonandoci il campo del Teatro Regio. Cessato per essa il privilegio di signoreggiare a buon mercato dai palchetti e di turbare la platea con un cicaleccio insopportabile, non vuol più tornare in un teatro dove si troverebbe confusa con noi che abbiamo il peccato di essere plebe» (Messaggiere Torinese, 3 gennaio 1849). (id, 49) «Nel carnevale 1848-1849, dopo che il Regio era diventato “teatro per tutti”, il Nazionale fu prescelto come ritrovo da “tutta l’eletta schiera femminea” che per evitare “lo spirito italiano che ormai invade fino alle midolle tutta la plebe d’Italia” si divertiva con i vaudevilles di una compagnia francese» (id, 49). Nel 1849 teatro delle marionette a San Martiniano per rappresentare la battaglia di Goito con 160 marionette in uniforme sarda e austriaca (id, 50). «Anche le opere con ballo allestite in estate al Gerbino richiamavano immediatamente l’attualità: in luglio andò in scena “Le cinque giornate di Milano”, mentre nel ballo grande “La disfatta di Federigo Barbarossa a Legnano” che accompagnava l’opera “I monetari falsi”, non ci si limitò alle allusioni: “A questo Barbarossa gliene fanno di tutti i colori, lo legano, lo stiracchiano, lo imbavagliano fin che scappa via. Allora gli altri temendo che torni portano una bandiera tricolore e a quella vista attori e spettatori si animarono da veri italiani. Vidi una mima guerriera che bacia con vero entusiasmo il sacro vessillo (…) Il tutto finisce con il calpestamento d’una bandiera austriaca, e v’assicuro che non si facevano pregare” (Gazzetta del Popolo, 30 giugno 1848)» (id, 51). «Per una certa parte, dunque, le manifestazioni del 1847 possono essere riallacciate a un prestabilito disegno. Ma ora la mente direttiva era individuabile in un onnipresente Roberto d’Azeglio; e proprio Roberto d’Azeglio firmò nel 1848 una relazione rivelatrice di qualche difformità tra la situazione reale e il ritratto ufficiale emergente dalle pagine dei giornali e dalle vignette ebdomadarie. Il rendiconto della “Commissione temporanea di Beneficenza” è intitolato: “Beneficenza cittadina per le Riforme concesse dal Re Carlo Alberto il 29 ottobre 1847 onde la pubblica esultanza di tali giorni si spandesse anche a sollievo della Classe Indigente”. La quale – sembra di leggere tra le righe – non avendo tratto dalle riforme alcun vantaggio non avrebbe avuto motivo di unirsi alla “pubblica esultanza”. La posizione di Roberto d’Azeglio, animatore e presidente della Commissione, può sembrare paternalista ma era fondata sulla coscienza del distacco tra gli “indigenti” […] e i sostenitori delle riforme, cioè gli intellettuali, le minoranze colte, la borghesia professionale, commerciale e artigiana. Furono questi gruppi, soprattutto, a festeggiare: al banchetto patriottico degli studenti, “caldi di patrio entusiasmo” seguirono quelli del “Commercio di Torino” (29 dicembre 1847); della “Unione dei Carrozzai» (16 gennaio 1848), degli Artisti (25 gennaio). Erano manifestazioni rassicuranti, occasioni per i discorsi che erano vere e proprie dichiarazioni di lealismo e di consenso al sovrano. I nomi più noti si trovano tra gli artisti, da Carlotta Marchionni a Giuseppe Borghi, Gualfardo Bercanovich, Federico Blachier, Barnaba Panizza, Virginia Lombardi; ma il banchetto del Commercio potè vantare la partecipazioni di Roberto d’Azeglio che pronunciò il discorso d’apertura» (Mercedes Viale Ferrero, 58-59). «Fino a un certo punto, rientrava nel solco delle precedenti testimonianze di devozione al Re e di giubilo per la “nuova libertà” anche la manifestazione della sera dell’8 febbraio: alle 15.30 era stato affisso l’editto in cui Carlo Alberto preannunciava la concessione dello Statuto. L’illuminazione della città, le acclamazioni di una folla festante che seguirono poche ore dopo furono l’immediata espressione dell’esultanza cittadina; la vignetta de Il Mondo Illustrato che ritrae i manifestanti radunati davanti al Palazzo di Città sembra rispecchiare fedelmente l’atmosfera di eccitata allegrezza della memorabile serata. Immediatamente iniziò la preparazione di quella che nel corso del 1848 sarebbe stata l’unica vera festa, intesa la parola nel senso di celebrazione sostenuta da un’organizzazione spettacolare e cerimoniale: la “dimostrazione” del 27 febbraio, variamente denominata “festa nazionale”, “feste nazionali”, “festa costituzionale”, “festa delle bandiere” o (la parte per il tutto) “funzione solenne del Te Deum”. La diversità dei nomi non è casuale: durante i diciotto giorni in cui la festa fu organizzata emersero discordanze concettuali e programmatiche che meglio si avvertono leggendo, in luogo delle cronache contemporanee ovviamente plaudenti, le memorie di anni successivi. Le prime difficoltà vennero proprio da Carlo Alberto che mandò a dire ai Sindaci di non voler “ni remerciements ni fetes”. Espresse inoltre apertamente il rammarico per aver visto sostituire “à notre ancienne et glorieuse cocarde bleue” un’altra coccarda, cioè quella tricolore, che si era diffusa più o meno contemporaneamente al cosiddetto “costume italiano”. Ma era difficile, e persino pericoloso, vietare le feste; piuttosto, si poteva incalanarle in un progetto che mediasse le diverse esigenze. Nei manifesti ufficiali, il “Programma” vero e proprio e l’”Ordine da tenersi” a firma di Roberto d’Azeglio, si avverte lo sforzo dei decurioni e della Commissione della cittadinanza – presieduta dallo stesso Roberto d’Azeglio – per rispettare il più possibile la volontà del Re e garantire la correttezza istituzionale del messaggio politico» (id, 60). «Carlo Alberto non voleva “fêtes”, non fu dunque eretto alcun apparato festivo e scarsi furono i diletti offerti ai cittadini: nessuno spettacolo gratuito, nessun ballo, ma apertura (per due ore) dei musei; distribuzione dei pani ai poveri; lotterie alimentari a cura del Municipio (ancora una tipologia napoleonica). Alla sera, si sarebbe acceso “un globo voluminoso di fuoco del Bengala” sulla cupola della Gran Madre e avrebbe avuto termine la festività di piazza Vittorio, con “il solenne canto dell’Inno nazionale in onore del Re”». (id, 60) Inno nazionale in onore del re intornato dopo le riforme del 1847: «Con l’azzurra coccarda sul petto/Con Italici palpiti in cuore/Come figli d’un padre diletto/Carlalberto veniamo ai tuoi piè». (id, 60) «La sera dell’8 febbraio Carlo Alberto aveva “raccomandato la calma” e nell’“Ordine da tenersi” a firma di Roberto d’Azeglio si “invitavano tutti i Cittadini a contribuire in ogni miglior modo per mantenere l’ordine pubblico, il quale sarà il maggior decoro della Festa”. Il 22 febbraio era stata sorteggiata la sequenza con cui sarebbero sfilate le corporazioni, con alla testa “per acclamazione” i valdesi. La “Riunione generale” dei “Cittadini” che dovevano confluire alla Gran Madre, quindi “terminata la sacra funzione” inoltrarsi “per la via di Po in piazza Castello”, sfilare “sotto la Loggia Reale” e qui “prestar omaggio” al Re fu organizzata con stile militare. Si formarono dei “drappelli composti di due file di dieci uomini ciascuno”; il complesso dei drappelli costituiva la “Falange”. “Per evitare il disordine […] Donne e Ragazzi” dovevano stare in “drappelli a parte”. In formazione separata dovevano “raccogliersi” anche i “Cittadini vestiti alla foggia italiana”. Per partecipare alla sfilata vi era una sola condizione: “avere il petto fregiato della coccarda azzurra”; in genere tutte “la Bandiere” dovevano “essere Nazionali e le Coccarde Azzurre”. Queste prescrizioni si conformavano, chiaramente, al volere sovrano. Tutte le testimonianze concordano nell’affermare che la manifestazione ebbe esito felicissimo. Superò ogni previsione l’affluenza della folla, nel numero veramente enorme di cinquantamila persone con diecimila bandiere. Vi furono momenti di intensa commozione, in particolare al passaggio dei valdesi e durante la silenziosa sfilata degli esuli lombardi, vestiti a lutto. Ma il “maggior successo” spettò a un apparato che non era stato descritto nei programmi ufficiali. I fuochi erano stati tirati, l’inno nazionale cantato, la folla stava per disperdersi quando “il Carroccio […] comparve in piazza Vittorio (Il Mondo Illustrato, 4/3/1848). Preceduto da una fila di giovani a cavallo, vestiti all’italiana, il Carroccio procedeva tirato da tre paia di buoi. Sul carro si elevava una gran croce, al fusto della quale erano attaccate la bandiera sabauda ed una campana, che un uomo, vestito da cappuccino suonava a stormo” (Delfino Orsi). L’apparizione di questo “simbolo dell’accordo della religione con la libertà” (Mondo illustrato cit.) fu un coup de théatre magistrale e il pensiero corre, inevitabilmente, all’apparizione del “Carroccio trionfale” al termine de “La battaglia di Legnano” – ma l’opera di Verdi andò in scena un anno dopo, il 27 gennaio 1849, al Teatro Argentina di Roma. Il patriottismo attingeva alle sorgenti storiche tanto nella vita reale quanto nella scena teatrale; realtà e finzione, memorie e speranze si congiungevano e quasi si confondevano» (62-63) 23 luglio 1848, vigilia di Custoza: benedizione delle bandiere della Guardia Nazionale: «una vignetta mostra il grande palco eretto nella piazza d’Armi di Torino, le truppe schierate, i comandanti a cavallo, il pubblico di signore con ventagli e parasoli» (id, 63). Con la fine del 1848 termina le pubblicazioni Il Mondo illustrato (id, 63). Il 3 e il 4 gennaio 1847 manifestazioni contro i gesuiti a Genova guidate da Nino Bixio e Goffredo Mameli e decisione di portare una petizione a Torino (Franco Della Peruta, 86) «Hai beni stabili / compri o rubati? / T’avanza e mettiti / fra i deputati. / Schivo, incurevole / d’argento e d’oro / di scienze e lettere festi tesoro? / Ferma; sol coniuga / il verbo “Io penso” / chi paga il censo» (strofette di Norberto Rosa contro i difensori del censo apparse sul Messaggiere del 4 marzo 1848) (id, 90). «In verità quando si porrà mano finalmente allo studio, pure per Torino, dei salotti e circoli napoleonici e della Restaurazione, non li si potrà estrapolare dalla più generale tendenza all’integrazione piuttosto che alla contrapposizione tra l’aristocrazia terriera e gli strati superiori della borghesia, dopo l’annessione del Piemonte alla Francia nel 1802. Né si potrà prescindere dalla formazione di una nuova burocrazia come ceto con caratteristiche peculiari, e nemmeno del diverso rapporto degli intellettuali con lo Stato, pur con molte sfaccettature, dalle figure provenienti dalla grande aristocrazia illuminata ai dotti formatisi nella cornice dell’illuminismo moderato; dagli uomini vecchi, già inseriti nelle strutture istituzionali dell’antico regime, agli uomini nuovi, letterati, gazzettieri, medi e piccoli borghesi destinati a divenire veri e propri funzionari del regime napoleonico. Inoltre non si dovrà trascurare la nuova dislocazione di Torino nella geografia culturale dell’impero, ridotta a una città di funzionari, gazzettieri minori, grand commis attivi soprattutto altrove, sia per la lontananza dalla prestigiosa capitale della Francia a cui il Piemonte fu annesso, sia per la concorrenza, nel nuovo circuito culturale realizzato al di qua delle Alpi, del centro indiscusso della politica e luogo di massima attrazione, Milano. Infine, affrontando i salotti e i circoli torinesi in età napoleonica, sarà altrettanto inevitabile misurarsi col problema del consenso, nelle sue oscillazioni, nella forza coercitiva maggiore o minore con cui veniva alimentato, nelle differenze tra ceti e gruppi: per lo più ostile la nobiltà, grande e media proprietaria terriera, con poche adesioni convinte al nuovo stato di cose, non molte adesioni di circostanza, una larga fascia di accettazione passiva, una nettamente maggioritaria componente avversa. Altrettanto contraria e legata al mondo nobiliare era una parte non piccola del clero: “Nobili, preti, esponenti delle professioni, ex alti funzionari sabaudi si incontravano in vari luoghi per sparlare e inventare notizie preoccupanti o – dicevano i poliziotti – per complottare: i ‘club’ innanzi tutto, cioè riunioni in alcune case, opportunamente sorvegliate dall’esterno per evitare improvvise irruzioni; poi c’erano le bische, ove, tra un gioco d’azzardo e l’altro, si concionava e si facevano circolare notizie; venivano quindi le veglie di preghiera in comune nelle abitazioni patrizie; e infine, più prosaicamente, i caffè, le botteghe dei cioccolatieri e di quegli artigiani che da tempo avevano stretti rapporti con i ceti elevati, ebanisti, carrozzieri, drappieri, minusieri, tappezzieri, parrucchieri, decoratori, armaioli. Non mancavano i retrobottega, le sacrestie, le canoniche” (Levra). Altrove, in modo informale oppure istituzionalizzato, si riunivano invece gli amici dei francesi, da cercare pure a Torino in quel ceto delle “capacità” che rappresentava, insieme alla nuova burocrazia e alle professioni, uno dei pilastri del sistema napoleonico: professori, scrittori, scienziati, magistrati, tecnici» (Levra, 105-106). Sul salotto di Giuseppina di Cavour id 107. (Bersezio) «A Torino prima del ’48 e nel successivo decennio di preparazione, i salotti aristocratici erano numerosi e diversificati: c’erano quelli dove si faceva molta politica e diplomazia, i “salotti dei presidenti del Consiglio”, Azeglio e Cavour, naturalmente affidati ad esperte mani femminili, la cognata Costanza, la nipote Giuseppina Alfieri; c’erano salotti più appartati, non dissimili da quelli settecenteschi, luoghi di dibattiti eruditi, storici, giuridici, scientifici, Sclopis-Avogadro e Balbo; c’erano quelli ove stavano maggiormente di casa le arti figurative, le lettere, la musica, Benevello, Turinetti, Caraglio, San Tommaso, San Germano. C’era, almeno sino alla fine degli anni Trenta e alla morte di Carlo Tancredi, il salotto di Giulia di Barolo che, dopo il laicismo e il razionalismo degli ideologues con venature giacobine di Ottavio, la nuora aveva riconvertito al più rigoroso spirito della Restaurazione e all’ostilità all’evoluzione del Piemonte in senso liberale. Ciò non significa che da quel salotto fosse bandito lo spirito di tolleranza e di confronto e che esso si riducesse a un cupo rimpianto del passato. La stessa marchesa, dopo aver guidato con vigore le conversazioni e incutendo spesso soggezione, si lasciava andare e schizzava con abile mano gustose caricature dei presenti, alti funzionari, nobili, preti, avvocati, qualcuno ancora in parrucca e in codino» (id, 108 con bella bibliografia in nota). (107-108) «Tra il 1849 e l’Unità vi fu, a Torino, anche un’esplosione di salotti borghesi, i quali furono spesso un altro dei luoghi dell’amalgama tra piemontesi e immnigrati politici: quello di Olimpia Rossi sposata all’avvocato Savio, poi nobilitato col titolo di barone di Bernstiel, quello di Enrichetta Cornero Caldani, quello di Giulia Molino Colombini, quello di Laura Beatrice Mancini Oliva. Piuttosto che proseguire in una elencazione generica, è preferibile ritornare sull’assenza di rigide demarcazioni sia all’interno della società dei salotti – già sottolineata – sia all’esterno, rispetto alle altre forme possibili di sociabilità. Da questo secondo punto di vista riesce difficile stabilire dei confini sostanziali e non solo formali tra la funzione che si svolgeva nel salotto, quella nel palco a teatro, quella al circolo, quella al caffè: non aveva torto Stendhal quando nel 1816 affermava che la Scala era il salotto di Milano. E tuttavia in certi momenti storici il travaso da un luogo all’altro fu più evidente: in tale ottica, si può fondatamente sostenere che nel 1848 a Torino il posto dei salotti e dei circoli fu preso dai caffè. «Alcune premesse sono necessarie.per meglio comprendere tale esplosione quarantottesca. La prima è che il caffè “politico” rispecchiava un preciso momento, diverso dal caffè settecentesco in cui magari si discuteva di pubblica utilità, ma diverso pure dal caffè novecentesco, quando una politica più professionalizzata e specializzata userà altri strumenti per formare un’opinione, politicizzare dei gruppi sociali, canalizzarli entro momenti organizzativi. Non solo il caffè della politica in pubblico del ’48 rifletteva una concezione in fieri della politica, ma anche uno stadio in cui ormai la vita collettiva era uscita all’aperto. Cioè il caffè del ’48, come la piazza, in un secolo che fra le altre cose fu quello delle barricate, rappresentò un momento di passaggio nella vita di relazione urbana, da spazi privati contraddistinti da una struttura più chiusa dal punto di vista spaziale e sociale, a una sociabilità più aperta. Fu il passaggio da una dimensione tutta interna alle dimore e condizionata da distinzioni di ceto e di classe, come nel salotto e nel circolo precedenti, a una vita di relazione svolta ora in uno spazio pubblico, non subordinata a criteri di appartenenza e di gerarchia, aggregazione spontanea, priva di un apparato e di una organizzazione rigida, espressione di bisogni radicati nella collettività, i quali finalmente uscirono dall’ombra e dalla clandestinità delle “congiure” e delle “sette”, terrmini onnicomprensivi con cui sino ad allora si indicava tutto ciò che agiva politicamente all’opposizione. «La seconda considerazione generale è che l’esplosione del caffè “politico” fu possibile quando fu ammessa una maggiore libertà di stampa e di riunione, nel caso del regno sardo tra la fine del 1847 e lo Statuto albertino, in un contesto in cui, in assenza di strutture organizzative stabili, il caffè forniva un supporto logistico fondamentale. Tanto più – e veniamo alla terza considerazione – data la stretta embricazione tra il caffè e il giornale quotidiano, che nei caffè giungeva così alla portata di tutti. Per quanto l’unione con le gazzette già fosse alla base del caffè settecentesco, da questo punto di vista Torino era meglio predisposta di altre città a tale sinergia. Quei novantotto caffè in senso proprio, di primo o di second’ordine, già esistenti nel 1840 “quasi tutti van forniti di qualche giornale, parecchi ne han cinque o sei, ma ven sono taluni in cui il numero de’ giornali nazionali e stranieri, politici, scientifici, letterarj e teatrali è sì copioso, ed in cui sì notevole è il concorso e l’assiduità de’ lettori che la stanza in essi deputata ai giornali può a buon diritto chiamarsi un gabinetto letterario. E ciò rende ragione del perché in Torino di gabinetti letterarj propriamente detti non v’abbia ch’un solo” (Bertolotti). «Di suo il caffè apportava, poi, rispetto al salotto e al circolo, una possibilità di vita di relazione teoricamente aperta a tutti non solo per la lettura dei giornali e per la discussione politica, ma anche con altri ingredienti: nei caffè del 1848 si giocava a carte, a biliardo, a domino, si consumavano cibi e bevande, si fumava; infatti questo fu anche il luogo ove si diffuse tra le classi medie l’uso del tabacco, bandito dal salotto, in quanto ritenuto volgare in presenza di signore. Inoltre il caffè accentuò la sola presenza maschile nella vita di relazione, in un’epoca in cui politica e affari divenivano sempre più prerogativa esclusiva dell’uomo e aumentava l’isolamento della donna borghese tra le pareti domestiche. La consuetudine che mescolava uomini e donne nei salotti cominciava dunque a perdere peso rispetto a quella che riuniva gli uomini nei caffè e nei circoli. Sarà solo nella seconda metà del secolo e nelle città più importanti che le donne rispettabili cominceranno ad avere accesso ai caffè, purché accompagnate; mentre le popolane da sempre frequentavano senza imbarazzi le osterie. «Si può dunque ritenere che a Torino (e probabilmente pure altrove) i caffè, dalla fine del 1847, abbiano svolto in concorso con i giornali la funzione di cinghia di trasmissione tra una ristretta opinione pubblica, già maturata in luoghi e circostanze elitarie, e una parte assai più ampia di borghesia cittadina rimasta sinora estranea o poco sensibilizzata alla politica. «La rapidità e l’ampiezza dell’esplosione del caffè politico quarantottesco furono impressionanti, a controprova di un clima generale di ansia febbrile, di effervescenza, di entusiasmo, specialmente tra l’ottobre 1847 e il febbraio ’48. È sufficiente scorrere i carteggi, i giornali, i diari dell’epoca per rendersene conto. «Nell’autunno del 1847 ormai avanzato la polizia continuava ad affannarsi a sequestrare foglietti anonimi affissi all’esterno dei caffè, in città e in provincia, inneggianti a Pio IX, a Carlo Alberto, a Gioberti e maledicenti i gesuiti. Intanto però quella donna straordinaria che fu Costanza d’Azeglio, termometro sensibilissimo degli umori e delle situazioni, informava il figlio Emanuele che il padre Roberto gestiva tutte le manifestazioni pubbliche in città, delle quali era il regista, del caffè Nazionale, già caffè delle Colonne, dove da anni era abituato a riunirsi con gli altri membri dell’Accademia dei Concordi. Nelle stesse settimane Costanza segnalava il perdurare dell’attività del proprio salotto, registrando però anche il rapido imporsi dei caffè come luoghi del dibattito politico, a scapito degli altri momenti di sociabilità, dal carnevale ai teatri. Questi ultimi, tuttavia, pur tra un certo disinteresse per i contenuti delle rappresentazioni, fornivano l’occasione per estemporanee manifestazioni patriottiche, affiancando il caffè e la piazza come luoghi della partecipazione collettiva della politica. «La nuova dialettica del ’48 era però soprattutto tra il caffè, il giornale e la piazza. Mentre accentuavano e istituzionalizzavano la funzione di luoghi del dibattito e delle riunioni politiche, i caffè, sempre affollati anche di giornalisti, divenivano giuntura di informazione e formazione di un’opinione pubblica, con un ruolo attivo e non passivo. Erano inoltre le sedi dove si organizzavano le manifestazioni di piazza, il tramite usato dai promotori dall’alto – insieme ai giornali – per disciplinarle o al limite per vietarle. Ad esempio, mentre il Consiglio generale di Torino discuteva nel pomeriggio del 5 febbraio 1848 sulla richiesta al sovrano della guardia civica e di una costituzione, Roberto d’Azeglio “réunit de suite ses lancie spezzate, parcourt les cafés, aborda tous les groupes et persuada tout le monde de se retirer sans mot dire”. Due giorni dopo, nella circostanza del gelido incontro tra i due sindaci della città, latori della richiesta, e il re, che non voleva assolutamente apparire condizionato dalla piazza, “on a affiché ce matin dans les cafés que si l’on faisait entendre des clamoeurs au passage des Syndics, le Roi ne le recevrait pas”. Analogamente fu nel caffè Nazionale che l’8 febbraio Roberto d’Azeglio lesse ai presenti il proclama con cui Carlo Alberto annunciava la costituzione, prima che esso fosse pubblicato e anche allo scopo di preparare la dimostrazione serale di giubilo. Di lì a qualche mese, in un altro caffè, nasceva la “Gazzetta del Popolo”, mentre il peso dei quotidiani andava sempre più aumentando, pure nei centri minori» (id, 108-111). «In genere d’estate ci si alzava alle 5,30, ossia mezz’ora prima della sveglia che suonava alle 6 nelle mattine invernali» (Narcisio Nada, 113) Le fabbriche erano situate ai margini della città, specialmente lungo il fiume Dora (ibid.) La giornata di Carlo Alberto in 114 e seguenti. «Alle 18 si aprivano i teatri oppure i balli e i ricevimenti nei palazzi della nobiltà e nello stesso Palazzo Reale. Soprattutto questi ultimi erano regolati da una rigorosa etichetta sia per le persone invitate, sia per gli abiti indossati. Generalmente, verso le 23, teatri e ricevimenti erano ormai chiusi e sulla città era sceso il più completo silenzio, rotto soltanto dal rumore dei passi delle ronde» (id, 118). Come furono scelti e sistemati il Palazzo Carignano e il Palazzo Madama, sede di Camera e Senato a Torino (Levra, 121 e seguenti). I primi 63 senatori nominati fra il 3 aprile e il 3 maggio (123). Una settimana prima che il Parlamento cominciasse a lavorare, vi fu l’allocuzione di Pio IX (29 aprile 1848) e una settimana dopo a Napoli cominciava la controrivoluzione (15 maggio) [124] Mancavano sedie, si usò il cappello del presidente per raccogliere le schede al posto dell’urna [125]. La Camera rivendica il proprio ruolo politico in contrasto con i poteri amministrativi tradizionali [126]. 18 marzo-9 maggio 1848, ristrutturazione del salone delle feste di Palazzo Carignano per ospitarvi la Camera [126], allargata da 204 a 337 per far posto ai nuovi deputati del resto d’Italia. Mobili di Moncalvo [126-127]. Sul decurionato, 130. Dipendenti della municipalità, doveri e salari [131]. Come i decurioni chiesero la Costituzione [132] Liberi professionisti, accademici, ecclesiastici, detentori delle “capacità” (132) Immagini di Roberto d’Azeglio e Pietro di Santa Rosa in 133 Sulla vita in caserma 161 e seguenti [In caserma] «il sabato era, nella stagione estiva, il giorno dedicato alla pulizia personale, al controllo degli effetti e degli armamenti, alle visite sanitarie e alle scuole teorico-pratiche. L’ispezione dei quartieri veniva di solito compiuta dal colonnello stesso comandante del reparto. Alla domenica la truppa veniva condotta, in armi, in chiesa: due soldati del reggimento servivano messa e la banda del reggimento eseguiva i pezzi di musica prescritti. «Il sabato era, nella stagione estiva, il giorno deputato all’effettuazione dei bagni: in luglio e agosto il reparto veniva condotto settimanalmente al più vicino fiume o specchio d’acqua per effettuare il bagno: giunti a destinazione i soldati potevano riposare per qualche minuto, onde non entrare in acqua sudati, e poi veniva ordinato loro di spogliarsi e immergersi per almeno un quarto d’ora. Coloro che mostravano una decisa avversione per l’acqua potevano evitare un’immersione completa, ma erano comunque obbligati a lavarsi i piedi e le gambe. Quando non venivano condotti al bagno, i soldati dovevano lavarsi i piedi una volta alla settimana durante la stagione estiva e una volta al mese durante la stagione fredda» [Fabio Degli Esposti, 165] «Ancora all’inizio del 1848 l’esercito piemontese era disposto sul territorio in modo da prevenire una possibile minaccia francese, e fu solo nel mese di febbraio che alcuni reparti cominciarono ad essere trasferiti verso Alessandria e verso la linea del Ticino. Il 1° marzo giunse l’ordine di chiamata per quattro classi di riservisti, e la mobilitazione si prolungò per tutto il mese, tanto che i primi reparti varcarono il confine lombardo solo il 29 marzo, sei giorni dopo la dichiarazione di guerra all’Austria e la definitiva cacciata delle truppe di Radetzky da Milano. Nel frattempo si stava mobilitano anche la riserva: l’ordinamento piemontese prevedeva che ciascun reggimento di fanteria, all’epoca organizzato su tre battaglioni, provvedesse all’inquadramento di due nuove unità, i cosiddetti quarti e quinti battaglioni, ponendo in linea 36 nuovi reparti cui si aggiungevano altri due battaglioni creati dai due reggimenti della brigata Guardie. Gli elementi di queste nuove formazioni erano in parte di origine piemontese e in parte lombarda. Si trattava di unità destinate essenzialmente a compiti di presidio: il loro impiego effettivo in combattimento era poco consigliato, sia per lo scarso addestramento sia perché, fin dalla loro costituzione, si erano presentati problemi pressoché insormontabili per quanto riguardava il reperimento dei quadri. Il sistema carloalbertino evidenziava in questo momento cruciale tutte le sue pecche» [165-166]. L’emergenza dei prigionieri di guerra austriaci (tremila già a maggio) [166]. Immagine della Giulia Falletti di Barolo in 213 «I proprietari d’immobili di borgo Vanchiglia e di borgo Doria chiedevano (senza successo) la chiusura del cimitero degli israeliti, di quello di San Pietro in Vincoli e, soprattutto, “del lurido camposanto degli impiccati” colpevole di spargere d’intorno un senso di malinconia e ribrezzo che scoraggia i Capitalisti» [Angela Capellaro Siletti, 219] Ritratto di Menabrea in 227 Ritratto di Carlo Ignazio Giulio in 239 Carlo Felice spese soprattutto per la flotta [Degli Esposti, 295] 4 marzo 1848, creazione della Guardia nazionale «o, come veniva chiamata nei documenti ufficiali, la Milizia civica. Si trattava di una formazione di ispirazione borghese» per la quale ci voleva un censo minimo «che ricalcava, nei suoi assetti formali, la Guardia nazionale francese di origine rivoluzionaria, ma inserita in un contesto assai diverso». Scarso successo da noi [295, id]. «Tornando ai provvedimenti di riforma» dell’esercito realizzati da Carlo Alberto nei primi anni di regno «alcuni di essi risentono, evidentemente, del dibattito in corso a livello europeo suill’organizzazione generale delle forze armate. È il caso della creazione del Corpo dei bersaglieri, una fanteria leggera che si richiamava all’esempio dei famosi zuavi francesi, ma soprattutto del nuovo ordinamento dell’esercito, attuato tra il 1831 e il 1833. Esso introduceva, al fianco di un consistente nucleo di professionisti, numerose classi di “provinciali”, cioè di elementi di leva, tenuti sotto le armi per un periodo breve – 14 mesi – trascorso il quale essi sarebbero passati prima a un congedo illimitato di sette anni (con la possibilità di essere richiamati per i campi d’istruzione) e poi, per altri otto anni, nella riserva. L’idea del sovrano era, com’è noto, quella di sposare l’efficienza di un esercito “di caserma” di tipo francese alla possibilità di mobilitare, in caso di necessità, forti contingenti di leva, come avveniva invece nell’esercito prussiano» [296, id.] «Ma è soprattutto nelle trasformazioni economiche in atto a livello europeo, e alla rapida evoluzione della tecnologia degli armamenti che si deve la crescente importanza dell’artiglieria nell’ambito delle forze armate piemontesi. Anche se solo a partire dal 1848 i suoi uomini (Giuseppe Dabormida e Alfondo La Marmora in primo luogo) giunsero ai vertici dell’apparato militare, possiamon dire che essi assunsero questo ruolo in virtù delle esperienze e delle relazioni maturate negli anni precedenti. «Un ottimo esempio in questo senso è rappresentato dallo sviluppo tecnico dell’artiglieria: durante l’epopea napoleonica essa aveva avuto una sempre maggiore importanza sia a livello tattico che a livello strategico, e nessun esercito poteva ormai prescindere dal possederne una numerosa. Ma le artiglierie costavano: ormai da parecchio tempo quelle terrestri erano costruite in bronzo: un materiale assai costoso e soggetto a un rapido deterioramento. Di qui l’idea di usare la ghisa, assai meno cara, meno soggetta all’usura causata dall’esplosione delle cariche, ma assai più fragile. In campo marittimo, dove la questione del peso delle artiglierie era secondaria, il problema era stato risolto costruendo artiglieri dotate di volate e di culatte di forte spessore. Il miglioramento delle tecniche siderurgiche iniziato nel corso del XVIII secolo cominciò a rendere possibile costruire artiglierie in ghisa che univano alla grande economicità e durata una resistenza finalmente affidabile e un peso accettabile, e la Restaurazione vide tutti gli eserciti europei impegnati in quest’opera di sostituzione, con la parziale eccezione delle artiglierie da campagna. Anche in Piemonte la questione era all’ordine del giorno […] Nonostante i tentativi compiuti da alcuni imprenditori savoiardi, come i Frèrejean e i Balleydier, di avviare produzioni destinate ai bisogni dell’esercito [cioè fonderie – ndr] le forze armate sabaude continuarono per parecchio tempo ad acquistare le proprie artiglierie all’estero; queste commesse rappresentarono senza dubbio un sensibile aggravio per l’erario, ma furono anche un’occasione per raccogliere importantissime informazioni sulle tecniche produttive adottate nei paesi più avanzati, con un’attenzione che non si concentrò solo sulle questioni puramente tecniche, ma che in molti casi si soffermava con spirito critico sulle condizioni economiche delle regioni visitate» [297-298, id]. Segue racconto dei problemi posti dalla fortificazione di Genova (1828-1829) con i viaggi del maggiore Omodei e del capitano Sambuy in Inghilterra e Scozia che scoprono i vantaggio del carbon coke [298] Per la maggior vicinanza, preferite le produzioni di Svezia, Belgio (Liegi, sede di una famosa fonderia di cannoni) e area tedesca. Fondamentale il libro dell’Huguenin in olandese e subito tradotto da Faustino Como. Cavalli a Liegi (1845-47). Storia di Giovanni Cavalli. Rapporti col Wahrendorf e suoi sforzi per far capire al ministero della Guerra che il cannone a retrocarica, con un otturatore di sua invenzione, era meglio. Incontro nel 1846, quando Cavalli viene inviato in Svezia (una sessantina di artiglierie in ghisa, venti costruite con la retrocarica). Invenzione della rigatura, subito adottata a Torino [299 e seguenti]. Problemi a Genova, dopo il Congresso di Vienna, per la circolazione monetaria. «Infatti per la circolazione delle monete e per il loro utilizzo anche nelle pratiche contabili, si assisteva a un insieme di consuetudini che coinvolgevano antiche tradizioni liguri e sabaude, legate, queste, alla lira piemontese da 20 soldi di 12 denari, innovazioni decimali francesi e l’uso di monete straniere, le quali conservavano il corso legale ed erano utilizzate comunemente come circolante […] diminuzione dello stock di moneta metallica dal 1825 al 1852, compensata, quasi tutta, dall’introduzione di biglietti al portatore» [Giuseppe Bracco, 338-339]. «All’aprirsi degli anni Quaranta il sistema bancario negli Stati sardi di terraferma era ancora interamente affidato alle tradizionali entità private: un centinaio di “negozianti banchieri”. In questo panorama emergevano quattro vere e proprie banche, due a Torino, Nigra e Barbaroux, e due a Genova, Parodi e De La Rüe. A fianco di loro, in concorrenza o in collaborazione, operavano varie figure di finanzieri, esponenti della nobiltà e della borghesia che costituiranno il nucleo centrale della realizzazione del predominio del regno sardo piemontese nell’età del Risorgimento e dell’Unità italiana. Non ultimo, fra loro, Camillo Cavour. Pare di cogliere, in questa fase, una sorta di concorrenza fra finanzieri torinesi e genovesi, divisi in diversi gruppi che operavano in accordi coinvolgenti personaggi che agivano sulle due piazze. Genova era certamente determinante per i commerci internazionali, Torino era più vicina ai centri del potere pubblico e gestiva la parte preponderante della produzione e del commercio della seta. Il più noto e studiato esempio di incrocio di interessi fra Torino e Genova lo si ritrova nei rapporti tra Camillo Cavour e i banchieri De La Rüe. Si constata, in questo periodo, che il pur lento ma graduale incremento dell’attività economica a partire dagli anni Trenta aveva favorito il formarsi di una quota interessante di risparmio, la quale, per svolgere un ruolo propulsivo a servizio di uno sviluppo economico più deciso, avrebbe avuto bisogno di istituzioni creditizie adatte» [340, id]. Dettagli sulla nascita della Banca di Genova (R.P. 16 marzo 1844) [ibid] Fusione tra banche di Genova e Torino deliberata il 14 dicembre 1849 [342, id]. Primo anno effettivo di vera attività il 1851 [343, id]. «Le partecipazioni azionarie della Banca nazionale non furono più parirarie e seguirono decisioni di veri e propri investimenti, giungendo a quote importanti, come le 162 azioni di Ignazio Casana e le 137 di Carlo Defernex. Camillo Cavour aveva 27 azioni nel 1850, già lasciate nel 1853» [343, id].