Roberto Gervaso, Il Messaggero 29/11/2010, 29 novembre 2010
VECCHIO CORRIERONE
Gentile Gervaso, la ringrazio per avere ricordato in maniera esemplare su queste colonne il grande Panfilo Gentile.
Leggendo il suo scritto sul poliedrico e geniale intellettuale aquilano, mi sono chiesto come avrebbe reagito a quanto accade oggi in questo mondo di “santi, poeti, navigatori, ballerine, escort”, eccetera.
Un’altra curiosità, se non la disturbo troppo. Lei ha conosciuto bene, durante gli anni fulgidi del “Corriere”, Michele Mottola e Dino Buzzati? Come erano? I ritratti usciti dalla penna di Gaetano Afeltra e Indro Montanelli, come li giudica?
Michele Narcisi
Caro Amico, io ho dato al grande Panfilo Gentile (per noi amici, Panfiluccio), quello che la cosiddetta intelligencija di questo Paese, che s’infischia dei meriti di chi non è, o non è stato “progressista”, gli ha negato. Un’intelligencija asservita ai diktat e beneficiaria delle prebende, delle sinecure, degli stipendi, dei premi che il “Bottegone”, alla fine della guerra, per astuta e lungimirante scelta di Togliatti, dispensò a piene mani agli antifascisti, i quali altri non erano, con poche eccezioni, che ex fascisti.
Durante il ventennio, tutti lecchini di Mussolini; dopo il 25 luglio del ‘43, dopo la notte del Gran Consiglio, che sfiduciò il Cavalier Benito, tutti suoi becchini. Certa storia in Italia si ripete con implacabile monotonia. L’importante, e solo questo conta, è stare dalla parte del vincitore, schierarsi con il più forte, finché tale resta. Poi, con sfrontata disinvoltura, si volta gabbana e si ripassa a un’altra corte. È la maledizione dei nostri intellettuali, ma anche la loro fortuna. Hanno bisogno di padroni come la Chiesa ha bisogno di santi.
Come avrebbe reagito Panfilo Gentile a quanto succede oggi? Avrebbe reagito come avrebbe reagito Augusto Guerriero, come avrebbe reagito Montanelli: andando in bagno e vomitando. Era stato antifascista, un vero antifascista, uno dei pochi, dei pochissimi avversari del regime, che lo relegò, tollerandolo, nel suo studio di insigne avvocato. Senza più cattedra e con pochi clienti, visse decorosamente perché ricco di famiglia, anche se gran parte dell’eredità, l’aveva spesa, anzi, dilapidata, in festini con belle donne, nell’acquisto di superbi cani di razza, in cospicue puntate sui cavalli. Ma tutto gli veniva e gli verrà perdonato grazie alla prodigiosa intelligenza e allo straordinario talento. Critico feroce di una classe politica inetta, affarista, maramaldesca, difendeva e rispettava le istituzioni, che avrebbe visto volentieri in altre mani. Mani che non c’erano allora e non ci sono oggi.
Grazie al Corriere della sera, i suoi numi tutelari di quegli anni li conobbi quasi tutti, e di molti divenni amico, ad onta di un abisso anagrafico.
Varcai per la prima volta la soglia dell’allora santuario di via Solferino, il 4 aprile 1961, sulle spalle della sua firma più illustre, Montanelli, di cui ero allievo e co-équiper. Avevo ventitrè anni e una furiosa, quasi ossessiva, voglia di far carriera, di farla bene e di farla in fretta. Fui ricevuto e preso per mano da Afeltra e dal vecchio, mitico direttore Missiroli, celebre per avere, in tempi lontani, sfidato a duello Mussolini. Tanto coraggio lo atterrì, da allora temeva anche la propria ombra, camminava a testa china (una testa calva come un caciocavallo), aveva mani lunghe, affusolate, bianche come candele, che si lavava cento volte al giorno. Temeva in egual misura i microbi e le proteste dei lettori, i mugugni dei politici lo terrorizzavano. Voleva andare d’accordo con tutti e non avere rogne con nessuno. Guardandomi da giù in su mi chiese: “Che studi ha fatto?”. Risposi: “Il liceo classico”. “Ottima garanzia”, chiosò. “Perché?”, incalzai. “Perché chi ha fatto il liceo classico sa fare un uovo all’occhio di bue meglio di chi non l’ha fatto”. Non so se fosse vero, ma quella risposta non la dimenticherò più. Prima che lasciassi la sua stanza, mi domandò: “Ha già scritto per qualche giornale?”. Pronto, replicai: “Cinque articoli per Nigrizia” (la rivista dei missionari colombiani). “Ottimo, ottimo, che garanzia. L’assumo subito”. Mi consegnò a Gaetano Afeltra, detto Gaetanino, sempre impeccabile nel suo monopetto di Caraceni e pieno di tic. Agitava il collo come se gli si fosse torto e come se petulanti insetti lo mordessero. “Era ora”, mi disse, afferrandomi per un braccio e facendomelo vibrare con le ritmiche contorsioni del collo, che non risparmiavano il resto del corpo, e mi accompagnò da Michele Mottola.
Mottola era la colonna più robusta e obesa del giornale, un formidabile redattore capo che svolgeva spesso le funzioni di direttore. Era lui che diceva a chi affidare questo o quel servizio, era lui a mobilitare gli inviati speciali. Più che salutarlo, lo ossequiai e lui cortesemente mi rispose con un flemmatico “buona fortuna”.
Mentre uscivamo dal suo ufficio entrò Dino Buzzati, altro “senatore” del Corriere. Romanziere, elzevirista principe, aveva il vezzo di fare i titoli degli articoli che Mottola gli passava. Un compito difficilissimo e delicatissimo, che nessuno assolveva meglio di lui. Montanelli stava a Roma e mi affidò a Dino che, a sua volta, mi consegnò al capocronista Giovanni Raimondi, un altro fuoriclasse, che la mattina, mi chiedeva se fossi andato al casino (i casini non c’erano più, c’erano le case d’appuntamento dove, a detta di Afeltra, ogni domenica Mottola, prima di recarsi al giornale, faceva una capatina). Al “casino”, per loro stessa ammissione, andavano anche Montanelli e Buzzati, andavamo tutti.
P.S. Dimenticavo: a Buzzati devo l’uso della bombetta.