FRANCESCO MERLO, la Repubblica 28/11/2010, 28 novembre 2010
GABER SEGRETO - C´è
«la Milano delle osterie, dei trani, delle periferie disabitate» che Ugo Mulas fotografò negli anni Cinquanta, ma è bello che il «cortile largo fatto a sassi» non sia descritto come la Bloomsbury italiana, perché Maria Monti non era Virginia Woolf, e Celentano era solo «quel giovanotto con la mania di imitare gli americani» ed «eravamo un bel gruppo di stonati» e «solo Tenco era di sinistra». E si sentivano tutti americani senza parlare l´inglese, poi francesi senza parlare il francese, e «una canzone non è un comizio» e «confesso che non ho mai sentito molta attrazione per il verde, sia inteso come foglie, sia inteso come... tasche vuote. Il cemento di Milano è il mio ambiente naturale».
e pensate invece alla banalità della via Gluck e all´eterno grido antimoderno, «aiuto, qui si costruisce!», che ancora oggi ha sconfitto l´architetto Boeri. Mite, timido, disuguale negli studi come molti talenti, il Gaber che viene fuori da questi appunti è migliore del poeta polemico e di dottrina inventato dai celebratori postumi che lo esaltano più di Manzoni, Calvino e Sciascia perché in Italia la canzone ha definitivamente soppiantato il romanzo di formazione e se l´America è «un paese che cambia» l´Italia resta «un paese che canta». E però qui viene fuori quel buon senso che i suoi epigoni non hanno. Su Tenco a Sanremo, per esempio: «Credo che un gesto del genere sia più da collegare all´uso di certe sostanze e all´inevitabile momento di abbattimento che ne segue. Un biglietto come quello è troppo banale per giustificare la morte di uno come Luigi».
E ogni tanto senti montare l´onda civile dell´indignazione, ma sempre anarcoide: «Io non voto da vent´anni perché non si tratta di scegliere il meno peggio: il meno peggio non esiste». Molto più spesso è preso dalle faccende sentimentali perché già da bambino «nelle canzonette mettevo troppi fiori e troppe barche». E se si imbroglia con la filosofia poi si salva con l´ironia: «Non è detto che se uno fa delle cose intelligenti dia il meglio di sé». Ancora: «Quello del cantante era, per mio padre, un mestiere poco serio. In linea di massima la vedo anch´io cosi».
Nessuno è mai riuscito a trovare le radici del talento nella biografia di nessuno. Si parva licet non c´è continuità tra la Critica della ragion pura e gli amori di Kant, e vale anche per i trimetri giambici di Euripide. Dunque anche questo libro, ricco di belle immagini, non spiega Gaber che era le sue canzoni, era la sua chitarra. Non c´è pensiero di Gaber senza l´interpretazione, il nasone e la stramba fisicità da palcoscenico, il tic, lo scatto e la smorfia con cui introduceva la distanza mentre cantava la vicinanza. Era stato un bimbo malato e la malattia gli aveva lasciato segni che lo costringevano a tenere posizioni oblique e scomode. Ma non è per questo che divenne il cantore di quelli che in Italia non trovavano la posizione comoda, il menestrello della sinistra sfrangiata e sfibrata, quella che amava i colori tenui, lo scatto, il muoversi obliquamente. Invece ora piace a tutti ed è entrato nell´aggiornamento del dizionario del cretino di Flaubert, dei luoghi comuni di un´epoca, dove alla parola Gaber segue l´esclamazione «quanto ci manca il suo pensiero!». In realtà non aveva presunzioni né titoli da scienza del pensiero. Aveva il talento dell´artista e l´orgoglio di «essere per bene». In un´Italia modesta ma "per male" dove «chi voleva sfondare doveva "urlare"» Gaber non era né genio né sregolatezza: «La lapide? Tutto sommato mi parrebbe bello essere ricordato come una brava persona».