Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 28 Domenica calendario

Chi difende la qualità del cibo? - Carlin Petrini, 61 anni, anima di Slow Food, è il paladino del piccolo è bello, dei contadini di Terra Madre, delle biodiversità, Guido Barilla, 53 anni, è a capo della multinazionale di famiglia, un colosso dell’agroalimentare capace di sfornare ogni giorno pane fresco in Germania, pasta, biscotti e merendine in Italia come in America

Chi difende la qualità del cibo? - Carlin Petrini, 61 anni, anima di Slow Food, è il paladino del piccolo è bello, dei contadini di Terra Madre, delle biodiversità, Guido Barilla, 53 anni, è a capo della multinazionale di famiglia, un colosso dell’agroalimentare capace di sfornare ogni giorno pane fresco in Germania, pasta, biscotti e merendine in Italia come in America. Due persone distanti anni luce. Da più di dodici anni non si incontravano per discutere, non senza qualche tensione, come leggerete, faccia a faccia. Un anno fa, in un’intervista per il Magazine del Corriere della Sera Guido Barilla si disse pronto a confrontarsi con Petrini sulla qualità delle merendine industriali. Partiamo allora da qui: una merendina industriale ha la stessa qualità di una sfornata nel panificio sotto casa? BARILLA. «La nostra idea è portare alla gente alimenti tradizionali, con ricette tradizionali, nel modo più semplice e diretto possibile. Penso che l’industria alimentare abbia fatto negli ultimi 50 anni passi enormi in questa direzione. La gente ha avuto a disposizione alimenti comunque salubri con ricette sempre migliorabili e migliorate nell’arco del tempo, a prezzi accettabili». PETRINI. «Io penso che siano due cose diverse che hanno diritto tutte e due di stare non solo sul mercato ma anche nella vita quotidiana della gente. Non c’è dubbio che l’industria ha dato un grande contributo a far uscire il Paese dalla carenza alimentare del dopoguerra. Ma la vera questione è un’altra. Strada facendo questo processo ha mortificato le piccole produzioni. Con un disastro per quel che riguarda l’agricoltura mai così grave come oggi. Oggi infatti le piccole produzioni di qualità vanno scemando. Slow Food e il sistema di Terra Madre lavorano per la difesa di questi piccoli produttori. Il che non vuole dire delegittimare gli altri perché in una società complessa hanno tutti diritto ad esistere. Guai però se il vaso di coccio viene stritolato. E la piccola produzione in questo momento è il vaso di coccio». B. «Condivido i principi teorici di Petrini, non la colpevolizzazione in termini pratici di una parte del settore agroalimentare. L’industria ha fatto un mestiere a cui il mercato la chiamava. Questo imperatore che chiamiamo mercato vive sulla domanda e questa è mediata dalla distribuzione che svolge un ruolo importante per la capacità di raggiungere i consumatori ma che sovente, attraverso le promozioni, li alletta con il miraggio di prezzi sempre più bassi. E quello del prezzo è un argomento fondamentale su cui discutere. L’industria non ha distrutto il piccolo commercio. Ha fatto un percorso a volte di successo, altre no. In questi anni molte aziende ci hanno lasciato le penne. La buona industria si è affermata con politiche di straordinaria attenzione alla qualità. Che molti piccoli produttori siano scomparsi non dico che sia nella logica dei fatti, ma farse ha una spiegazione nella mancanza di propositività e di competitività. Rifiuto completamente l’individuazione del fantomatico colpevole nella grande industria e nei suoi marchi». P. «Mi sembra una scusa non richiesta. Non ho detto che la colpa è della grande industria». B. «Ma lo sottintendi spesso. Hai detto in passato cose abbastanza gravi sulla grande industria. Hai sostenuto che cela informazioni sulle filiere dei prodotti per far sì che siano competitivi. E’ un’accusa pesante». P. «Ma questo è successo». B. «Non da parte di tutti. Dicendo genericamente grande industria colpevolizzi un intero settore». P. «Allora dirò che la colpa è di Bajon, come cantava mia nonna. O che se dobbiamo individuare un colpevole va cercato su vari fronti compresi i consumatori, cioè noi tutti. Stiamo vivendo una crisi le cui proporzioni sono sottovalutate. Una crisi cui si danno risposte vecchie come l’incitamento a consumare, quasi fosse l’unica strada per risollevare l’economia. Alla crisi bisogna rispondere invece con alleanze che impegnino tutti in un processo virtuoso. In primo luogo la difesa dell’ambiente poi quella della biodiversità e qui c’è anche la diversità culturale dei piccoli. Poi la giustizia sociale perché un Paese come il nostro che mostra sulle tv di tutto il mondo come tratta i neri che raccolgono i pomodori non fa una bella figura. Non possiamo però dimenticare che le politiche di Bruxelles non sono determinate dai piccoli produttori ma dalle multinazionali che hanno vere e proprie lobby. Inoltre i piccoli non possono permettersi la potenza di fuoco in pubblicità delle multinazionali Poi c’è da dire che la distribuzione è quella che mangia la torta più grande a scapito sia dei piccoli produttori che delle industrie. La via nuova che tutti dobbiamo seguire è tornare a dar valore al cibo che abbiano ridotto a merce». B. «Su quest’ultimo punto sono d’accordo. È necessario tornare a dar valore al cibo. Far capire sia alla gente che alla distribuzione che la corsa al prezzo sempre più basso è un meccanismo non virtuoso ma folle. Perché genera un abbassamento della qualità. Inoltre abbiamo avuto la fortuna di un lungo periodo di prezzi stabili delle materie prime e la crisi porterà in futuro uno strutturale aumento di questi prezzi. Bisogna ricominciare a dare alla gente più informazioni su cosa è un cibo di qualità e cosa comporta produrlo. Che cosa sono le filiere, come nascono i vari alimenti e quali sono i costi della qualità». P. «Sono convinto anch’io che il ruolo dell’informazione sarà sempre più importante. E anche la pubblicità da immaginifica dovrà diventare informativa. Non è possibile che alleviamo i nostri figli senza che sappiano cosa significa la fermentazione del pane, come si fa la pasta o come si coltivano i pomodori. Si sta diffondendo una forma gravissima di ignoranza che la società contadina non aveva». Ma dal punto del consumatore che differenza c’è tra un pacco da mezzo chilo di pasta Barilla che compra a 90 centesimi e un pacco di fusilli di Gragnano, presidio Slow Food, per cui spende 4 euro? P. «Non è il caso di fare demagogia sul prezzo. Ciascuno spende in base a quello che ha in saccoccia. E i fusilli di Gragnano sono lavorati a mano». B. «Sempre che lo siano». P. «Lo sono, lo sono. E anzi ho anche chiesto che le donne impegnate nella lavorazione potessero cantare. Se cantano mentre lavorano il fusillo viene più buono». B. «Concordo sul fatto che il cibo debba avere il valore che merita». P. «Non dimentichiamo che mentre facciamo questi discorsi buttiamo in Italia e in America tonnellate di alimenti ogni giorno. Nei nostri frigoriferi ci sono cibi che chiedono pietà, li compriamo e poi non li mangiamo. E questo è anche frutto di prezzi troppo bassi. Un po’ di tempo fa sono stato attaccato perché ho detto che vendere il Barolo a 2 euro alla bottiglia non era una cosa democratica ma una follia. Ne sono profondamente convinto, e cavalcare quella demagogia significa distruggere i produttori seri. Chi pensa sia possibile non sa come si fa il Barolo». B. «Aggiungerei che ci si scandalizza per il prezzo di quel che mangiamo ma si dimenticano i milioni di euro buttati ogni giorno nel gioco d’azzardo o in altri consumi superflui». Per voi il Made in Italy significa un prodotto che in tutte le sue fasi, dalle materie prime al risultato finale parla italiano, oppure il vero valore del made in Italy sta nella trasformazione? P. «Non sono per l’esasperazione del Made in Italy. Credo che significhi saper portare il nostro savoir faire, anche utilizzando materie prime di altri Paesi. Credo che su questo terreno l’industria potrebbe fiancheggiare i piccoli produttori. C’è da sottolineare poi che la nostra tradizione non è genericamente italiana ma si rifà (l’esempio più classico è la cucina) ai vari territori, regionali ma non solo». B. «Il nostro marchio è quasi un simbolo di italianità. Il Made in Italy per noi però non è legato alla materia prima, ma piuttosto alla competenza e alle macchine che trasformano i prodotti. Pensare che tutta la materia prima di quel che facciamo nel mondo sia italiana è una stupidaggine. I prodotti che distribuiamo in America escono dai due stabilimenti che abbiamo lì. Sono identici a quelli che escono dagli stabilimenti italiani perché gli standard qualitativi nella produzione della pasta sono identici. In più in America vanno i nostri tecnici e portano le competenze accumulate in 100 anni di esperienza nel fare la pasta in Italia. Dire che il Made in Italy sta più nel esportare un concetto, un modello ed è questo che ci viene riconosciuto». P. «Aggiungerei che anche se non coltiviamo il caffè, non possiamo dire che il nostro caffè non sia made in Italy. Ma vado in collera quando vedo che i pastori sardi sono sempre più poveri perché per fare il pecorino romano o sardo si usa il latte di pecora che viene dalla Romania e costa meno di quello locale. In questo caso non si tratta di un pecorino made in Italy ma di un falso che depaupera i nostri piccoli produttori». Slow Food ha fatto della lotta gli Ogm una sua bandiera, Barilla come vede il problema? B. «I nostri prodotti non contengono organismi geneticamente modificati un po’ per scelta un po’ per fortuna. Se usassimo mais o soia sarebbe difficile ignorarli. Ma abbiamo un atteggiamento culturale per cui non li consideriamo di per sé il diavolo. Sotto questo nome esiste un’enorme varietà di mutazioni genetiche, dalle più aggressive alle più dolci. La tecnica dell’ibridazione ad esempio è nata con gli egizi. Anche in questo campo credo che sia fondamentale un’informazione corretta. Dobbiamo chiederci quali passi avanti possa fare la scienza per permetterci di fronteggiare l’incremento della popolazione. Non c’è da essere contrari all’innovazione e alle possibili scoperte purché garantiscano la salubrità e non siano un pericolo». P. «Gli esiti dell’incrocio fra regno animale e vegetale né la storia né la pratica né l’osservazione a medio termine possono garantirli. Pensa al fenomeno di mucca pazza esploso a 25 anni di distanza dall’inizio dell’alimentazione dei bovini con farine animali. Chiedo il diritto di precauzione. Poi non demonizzo cose come l’ibridazione: è stata questa a salvare nel secolo scorso i nostri vigneti dalla peronospera della vite. Quando si è scoperto che ibridando viti americane con viti nostrane il parassita non si diffondeva si è arrestato un processo che rischiava di far scomparire la nostra enologia. Grave è che siano tre multinazionali a detenere i brevetti degli Ogm. Ho visto di recente in India gli effetti della Green Economy che avrebbe dovuto essere una panacea: ogni giorno ci sono decine di suicidi di contadini che non riescono a ripagare i debiti. Certo confondere gli Ogm con le biotecnologie è un errore. La scienza però deve dialogare con i saperi tradizionali in condizioni di parità senza pensare che la verità stia solo da una parte».